Regia di Leonardo Pieraccioni vedi scheda film
Pieraccioni in carta carbone ed in salsa stucchevole. La consueta santabarbara di buoni sentimenti e battute elementari ed alimentari. Non sempre i finti giovani riescono a cambiare il mondo, specie quando, come nel caso di L.P., la loro massima aspirazione è quella di mantenere l'universo cinema nella mediocrità.
Ogni tanto è necessario e salutare concedersi una soiréé di cinema italiano, possibilmente desorrentinizzata ed aliena da ogni intellettualismo. Il masochismo fa parte dell’essere umano, così come dell’uomo è parte integrante la eventualità di scollegare le sinapsi e passare 90 minuti su un divano fantozziano a seguire le peripezie di finto candore (tali da far sembrare il Banfi e i Vitali delle commedie scollacciate, nonchè i Gigi e Andrea in vacanza pseudo-godereccia in quel di Acapulco/Cesenatico, dei nipotini appena ritardati di Bresson) di uno dei più resistenti (ma resistibili) Re Mida del carrozzone tricolore: il Pieraccioni Leonardo, plurilaureato, con lode e menzione accademica, in fuffa.
Per l’ultima fatica (Il professor Cenerentolo, ma di scarpette non si vede ombra che non sia quella stivalata di una annoiatissima e querula Chiatti in versione umbro-romana) il fiorentino nostro chiama a raccolta un po’ di crema dell’attoricume ben tritato e stipato tra palinsesti alla moda e accessi di popolarità ad ondate: il sodale Ceccherini, triste maschera di se stesso e del se stesso trombatore della basta che respiri, la donzella di virginale purezza e modi spicci da scaricatore (la Chiatti di cui sopra, attrice che rappresenta un mistero o, forse, la prova lampante che l’angelicabile bellezza non fa Actor’s Studio), un nano (venghino, signori, venghino) dalla simpatia ed autoironia sospette (il napoletano Davide Marotta, che prende calci, schiaffi e sfottò per tutta la durata del capolavoro, non sappiamo se perché persona davvero conciliata e risolta ovvero per più bieche esigenze di cachet e quarti d’ora di rabberciata popolarità), il buono pret a porter Flavio Insinna, un interprete che è un lombrosiano inno alla saggezza e, purtroppo, alla noia.
La storia, scritta con l’ineffabile Giovanni Veronesi (altro mistero glorioso e dogmatico del cinema nazionale, regista e sceneggiatore dai pochissimi picchi in una carriera passata ad infiocchettare banalità), è quella solita. Un uomo in disarmo, nella fattispecie un ingegnere in gattabuia per ragioni di crisi economica, che si innamora della bellezza di turno, mercè occhi da triglia e parlata truffaldina dalle consonanti aspirate, e che, attraverso la dolcezza muliebre, scopre quanto può essere bello e semplice il riscatto, happy end incluso e ovviamente obbligatorio.
Si piange? Si ride? No. Nemmeno ci si arrabbia più di tanto: questo è il cinema (natalizio e non) che Pieraccioni fa dai tempi del monolito kubrickiano, questo è quanto il pubblico si aspetta. E il tempo invariabilmente scorre, tra le volgarità affidate al Ceccherini finto biondo e le banalità dei dialoghi tra L.P. e la Chiatti, coppia dalla chimica inesistente e assolutamente male assortita (c’è peraltro il forte sospetto che l’attrice si sia doppiata in post-produzione, con risultati pessimi ed inascoltabili). Una risata sincera la strappa soltanto un guizzo di pochi secondi, pressochè impercettibile ma dai tempi comici onestamente perfetti. Pieraccioni, nel, parlatoio della prigione, incrocia un galeotto di colore e lo saluta velocemente con un “Ciao, Conti”. Che il picco del film sia affidato alla bonaria presa per il culo dell’amico Carlo la dice comunque lunga sul sudore che gli sceneggiatori hanno profuso alla ricerca della quadratura del cerchio.
Non ci sono commenti.
Ultimi commenti Segui questa conversazione
Commenta