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Bagdad Café

Regia di Percy Adlon vedi scheda film

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La recensione su Bagdad Café

di sasso67
8 stelle

Il film di Adlon è una parabola che inizia quasi come una comica del muto, ripresa da una macchina da presa fuori asse. La protagonista, rimasta da sola in mezzo al deserto, combatte la tentazione di risalire in macchina con il detestabile marito, e si avvia a piedi verso il luogo abitato più vicino. Giunge a piedi, con abbigliamento improbabile, culminante in un cappellino bavarese con tanto di penna, al microcosmo del Bagdad Cafè, dominato, ma non controllato, dall'esasperata Brenda, che ha appena cacciato l'ignavo marito Sal. Funziona poco o niente al Bagdad Cafè: non si riesce neppure ad avere un caffè o una birra. L'unico caffè, peraltro buono, che si può bere nel locale di Brenda, proviene dal thermos di Jasmin, come una sorta di miracolo del vino alle nozze di Cana. Senza che nessuno glielo chiedesse e senza che ella ne pretenda una ricompensa, Jasmin comincia l'opera di riassetto del Bagdad Cafè, ormai liberata definitivamente dalla presenza del marito. Piano piano riporta nel locale un'armonia che non c'era e se ne va l'unica persona che sembra rappresentare il male: Debbie, la donna dei tatuaggi, che fa le valigie scornata. Jasmin è arrivata al motel di Brenda con in mano la valigia sbagliata, quella che contiene i vestiti del marito, e una borsetta con i trucchi del prestigiatore. Nel locale si esibisce nei giochetti di magia e addirittura canta e balla, in abiti maschili, insieme a Brenda: quest'ultima è senza marito dopo l'uscita di scena di Sal, mentre la tedesca ha abbandonato herr Münchgstettner, per cui è la signora tedesca che ormai funge da uomo di casa. Tanto che, quando alla fine il pittore Rudi Cox, che l'ha ritratta anche nuda, chiede a Jasmin di sposarlo, questa non dice di essere già sposata, ma di dover chiedere il permesso a Brenda (che nel frattempo ha riabbracciato Sal). Nel frattempo, Jasmin, che era stata portata via dallo sceriffo per scadenza del suo permesso turistico, inspiegabilmente ricompare, come in una sorta di mistero della Risurrezione. Una presenza, dunque, illuminante (sottolineata, quasi ossessivamente, dalla canzone Calling You di Jevetta Steele in colonna sonora), che ha riportato grazia e salvezza in un posto che sembrava abbandonato da Dio. Ottima la regia del bavarese Percy Adlon, che mi pare abbia qui qualche debito con la pittura di Edward Hopper. Notevole la prestazione di Marianne Sägebrecht, anche spiritosamente sensuale, ma anche quella di CCH Pounder, giustamente esagitata.

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