Regia di Federico Micali vedi scheda film
Ricordare è vano, se non ci aiuta a capire ciò che siamo. Micali cerca di spiegarcelo come si fa con le favole, che nei bambini suscitano tanti perché. Le risposte sono fra le righe: sono le macchie di inchiostro, le sbavature, gli scarabocchi di quando non sapevamo scrivere. Sono gli errori, le battutacce, le canne fumate davanti a un film.
Oggi, quale cinema si chiamerebbe così. E dire che una volta quel nome faceva rima con fenomenale. L’idea di una visione estesa quanto il mondo spingeva l’immaginazione verso l’impossibile. Era imparentata con i voli intergalattici della fantascienza, con i miti d’oltreoceano, con il sogno di andarsene e diventare qualcuno, laggiù, lontano dagli ombrosi angoli di casa nostra, in un regno dorato illuminato dai riflettori. Negli anni settanta la globalizzazione non era ancora una brutta parola. Non metteva paura, perché, anzi, l’assenza di confini era la magnifica antitesi alle divisioni che avevano scatenato una guerra terribile, mai veramente finita, dato che proseguiva, senza le armi, dentro un’Europa divisa a metà da una cortina impenetrabile. Chi, a quell’epoca, era ragazzino, credeva che poter guardare oltre fosse un privilegio, un modo per poter fuggire dalla noia, dalla vita ordinaria, e costruire cose nuove ed importanti. Bastava anche solo entrare in una saletta buia per vedersi spalancare nuovi orizzonti, ed accendere quella magica illusione che azzera la distanze e ti catapulta dentro favole altrimenti irraggiungibili, come trovarsi a tu e per tu con John Wayne, o dialogare con Marlon Brando, o, ancora, incitare le stelle delle pellicole ai luci rosse. Questo film ci fa tornare indietro nella storia, ma non al solito glorioso passato trasfigurato da una malriposta nostalgia, bensì a quello che è stato il normale presente di avantieri: popolato da gente di quel genere che, in fondo, è sempre esistito, persone così così, abitudinarie e un po’ goffe, mediocri anche nel fantasticare, però piene di un gusto per lo spettacolo che – quello sì – è davvero andato perduto. Il pubblico de l’Universale rideva di cuore, diceva battute, rumoreggiava e faceva una gran confusione, ma non si muoveva mai a comando, come una massa pilotata ad effetto. Ognuno pensava e parlava per sé, spesso in maniera volgare, e tuttavia sempre estemporanea a creativa, cercando magari il consenso, ma rischiando anche il dileggio. I personaggi di questo film sono i clienti affezionati di un tempo – all’occorrenza eccentrici e indisciplinati – che le mode, di lì a poco, avrebbero tramutato in consumatori seriali, passivi e omologati, appiattiti su un’adesione acritica, anonima, e, soprattutto, priva di autentica gioia. Ruspante era il provincialismo filoamericano, come, sul versante opposto, anche la contestazione cosmopolita e antiborghese. Nel microcosmo ritratto da Federico Micali, trasgressione e tradizionalismo si fronteggiano in una sagra paesana in cui tutti sanno di essere piccoli e fragili, e nondimeno si divertono come se fossero i re della festa. La fattura vagamente buffonesca della rappresentazione, arricchita da qualche spunto di raffinato humour, va intesa come il giocoso tributo ad uno spirito gaudente e primitivo che, pur essendo facile all’incanto, viveva al riparo dagli artifici patinati dei format televisivi, dando sfogo alla propria ingenuità in un rozzo tourbillon di registri popolareschi, fra le chiacchiere da bar, il tifo da stadio, lo scherzo di carnevale. A fronte di una miscela tanto genuina e originale, è un peccato che l’anima estrosa della commedia sia costretta a convivere con il didascalismo spiccio della rievocazione storica, che trasforma gli eventi (il caso Moro, la morte di John Lennon) e i fenomeni (la cultura hippie, la lotta armata, la droga) in cliché scolastici dagli sviluppi più che scontati. Nel contempo rigido e acerbo è anche lo stile delle caricature, che mostrano i tratti grossolani ma un po’ mummificati delle maschere di cartapesta. Quest’opera, insomma, è un po’ bambina. Un vezzoso difetto, forse inevitabile, per un racconto sull’infanzia felice di questa nostra Italia del terzo millennio: una nazione moderna, ormai libera da tabù e ideologie, ma totalmente immemore dei mal di pancia che l’hanno fatta diventare grande.
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