Regia di André Øvredal vedi scheda film
Mentre The Autopsy of Jane Doe viene prodotto, girato e distribuito, l’horror main stream langue di idee e di immaginario, ricicla se stesso e solo in rari casi riesce nell’obiettivo di rappresentare l’indicibile attraverso forme e linguaggi adeguati. È quello che succede in buona parte anche al film di André Øvredal, già cult per il suo Trollhunter (2010), che grazie ad un lavoro di manierismo non gratuito riesce a confezionare un horror ben riuscito, pur con i sui limiti. Difatti, sia i diversi colpi di scena che l’identità della misteriosa Jane Doe sono prevedibili e facilmente anticipabili da uno spettatore allenato. Ciò in cui il regista riesce è piuttosto la forma del racconto, la modalità con cui il già conosciuto e il prevedibile ci vengono raccontati. Non solo adotta uno sguardo carpenteriano per descrivere gli ambienti angusti in cui si snoda la vicenda, una camera mortuaria nel sotterraneo di casa Tilden, evocando così l’angoscia e l’inquietudine dello spazio umano, delle forme e delle strutture dello spazio umano, con tutte le simbologie e i ricorsi del caso, ma grazie ad un’ottima fotografia e un tema musicale azzeccato e mai banale, Øvredal riesce a dare un’anima all’immagine.
Allo stesso modo, un’ulteriore motivo di plauso è la scelta del duo protagonista, i Tilden, padre e figlio, interpretati rispettivamente da un mostro sacro come Brian Cox e da uno dei migliori attori della sua generazione, Emile Hirsch che, tra alti e bassi, è sempre in grado di stupire e coinvolgere. In perfetta sintonia, i due affrontano il mistero del cadavere da sezionare con i passi e i tempi di un vecchio racconto del terrore, incarnando con sobria misura due caratteri archetipali, il senex e il puer, perfettamente inseriti all’interno della diegesi.
Il pregio del film, però, non è solo la forma, l’estetica adottata e l’atmosfera evocata, ma anche il gioco tematico con cui il regista impreziosisce quello che potremmo pur chiamare mortuary horror, un filone che prende, a seconda dei casi, direzioni diverse (El jorobado de la morgue, 1973; Mortuary, 1983; Due volte nella vita, 1985; Il guardiano di notte, 1994; il suo remake Nightwatch, 1997; Mortuary, 2005; Deadgirl, 2008; The Morgue, 2008; After.Life, 2009; El cadáver de Anna Fritz, 2015). Stranamente senza tensioni sessuali, se non la velata predilezione del giovane protagonista per i cadaveri invece che per la sua ragazza, o dedizione se ci sembra più opportuno, il film preferisce giocare su un territorio prettamente orrorifico scegliendo in parte il classico tema oggi in inflazione delle presenze infestanti, in parte lo stregonesco e in parte lo zombesco. Inoltre, e in modo nemmeno didascalico, il regista mette in scena lo scontro tra due uomini di scienza e il mistero dell’irrazionale.
Da questo punto di vista il film è accuratamente sviluppato. Da un lato il minuzioso lavoro dei medici legali, imperniato sul dettaglio corporale e viscerale, dall’altro i segni dello stregonesco che irrompono nel tempio della scienza generando sorpresa, sconcerto, inquietudine e ataviche paure. Oppure, da un lato l’accanimento sul cadavere, segno della corruzione del corpo, alla ricerca di indizi per scoprire identità, segreti e ragioni della morte per esorcizzarla e ricondurre tutto alla rassicurante luce del raziocinio, e dall’altro il mistero, l’irrazionale, il fantastico, il macabro, l’inumano e il leggendario che irrompono nella dimensione scientifica per disturbare e annichilire chi tenta di indagare i segreti del corpo, della vita e della morte.
Se il regista avesse preferito un approccio visivo più personale e meno main stream, con carrellate meno fluide, più stacchi e più inquadrature motivate, aggiungendo magari qualche dettaglio orrorifico in più e qualche sottotesto sessuale in più, il film sarebbe stato di gran lunga più interessante, e invece di essere solo un riuscito esercizio di stile e un’ottima variante del mortuary horror, sarebbe potuto essere uno dei titoli più interessanti e interrogativi del recente cinema horror.
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