Della considerazione per cui nel cinema horror si dice che il subconscio generi mostri e che il nemico è dentro di noi lo scandinavo Andre Ovredal ha fatto tesoro per il suo esordio americano, immaginando che nella vicenda che sta al centro di “The Autopsy of Jane Doe” il male scaturisca e si propaghi dalle viscere del cadavere su cui i due protagonisti devono eseguire l’autopsia per chiarire le cause del decesso. Succede infatti che il procedimento autoptico eseguito dai due malcapitati diventi la causa di una serie di inquietanti fenomeni destinati a concretizzarsi nelle malefiche presenze che in un crescendo di sangue e persecuzione iniziano a tormentare i protagonisti della storia.
In questo senso “The Autopsy of Jane Doe” vive i suoi momenti migliori quando a prevalere è la parte più istintiva della vicenda, quella che a partire dal rinvenimento del cadavere e nella successiva necroscopia trova modo di esaltarsi in un mix di mistero e tensione che Ovredal si conquista limitando la sfera d’azione dei personaggi, i quali, rinchiusi all’interno della stanza ambulatorio vivono il divenire degli accadimenti attraverso ciò che succede oltre i confini del loro “territorio” e cioè nel resto dell’edificio che li ospita. In questo contesto Brian Cox nella parte del coroner Tommy Tilden e Emile Hirsch il quello di Austin Tilden, il figlio che lo assiste in qualità di tecnico medico sono perfetti nel rendere il senso di claustrofobia e la paura che deriva dalla consapevolezza di essere di fronte a una situazione senza via d’uscita. Al contrario quando - a metà del “guado” - la ragione e la voglia di spiegare prendono il sopravvento al fuori campo cine testuale il mistero si trasforma in una fabula così piena di banalità e forzature (alcune delle quali legati da risultare sterile in termini di suspence e coinvolgimento. A beneficio dello spettatore a cui questa recensione è rivolta diciamo che se fosse un match di boxe “The Autopsy of Jane Doe” sarebbe un ko tecnico. A buon intenditor...
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