Regia di Cristian Mungiu vedi scheda film
Questo film ben difficilmente verrà ricordato. Non cambierà di una virgola la storia del cinema. E neanche quella del suo regista. Kiarostami, Haneke, Dardenne (ossia tre fra i registi più influenti degli ultimi 30 anni) si ritrovano nello stile incredibilmente unico ed inconfondibile di Mungiu. Basta un fotogramma per capire che siamo di fronte ad una regia del rumeno.
La regia appunto. Perchè la trama, in sé, non ha quasi niente di originale: il conflitto generazionale, la famiglia sfasciata, lo sguardo sulla corruzione della società rumena già visto in altre opere della Nou Val (Puiu, Porumboiu, lo stesso Mungiu, Netzer), il caso come innesco dei dilemmi etici e come motore dello psicodramma (e qui si nota l’influsso di un quarto grande maestro contemporaneo, il compianto Kieslowski), tutto veicolato da dialoghi pressochè impeccabili.
Ciò che rende il film un thriller dal quale è difficile distogliere lo sguardo per un solo istante è la mano di Mungiu: rigorosa nello schivare ogni possibile deriva metaforica o visionaria o espressionista, ogni ricatto moralista, ogni visione manichea, si attiene ad un realismo veicolato attraverso inquadrature di una precisione tagliente eppure senza alcuna forzatura o deformazione prospettica.
E’ un minimalismo avvincente che conferma Mungiu come autore dalla sostanza pregnante e dalla forma che tende ad occultare la bellezza: ogni sua immagine, ogni scelta sul fuori campo, sulla messa a fuoco, sulla disposizione dei personaggi e degli oggetti nel quadro e nei vari piani è frutto di un attento studio volto a creare rapporti di forza fra le persone e le idee che esse espongono, ponendo lo spettatore in una posizione ambigua, come arbitro impotente di un confronto che non ha vincitori né vinti.
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