Regia di Cristian Mungiu vedi scheda film
E’ sempre una questione tra genitori e figli, tra padre e figlia. Ceausescu, il padre orco, e la fragile Romania (a sua volta mamma disperata e disperante di un popolo che non sa più tracciare i confini del dovuto e del dovere -“Il sistema di valori sarà sempre valido. Ma non qui in Romania” - ). Il medico professionalmente integerrimo, con lievi scantonamenti nella sfera privata, figli della tristezza più che di una vera e propria deriva dell’etica, la figlia, giovane, lieve, eterea, su cui proiettare ed introiettare i sogni dell’alterità. Sogni che il cielo grigio, le case uguali, i vetri infranti rendono fuori moda, risucchiati nel gorgo di una quotidianità plumbea.
Il cinema di Mungiu è cinema che pone l’individuo di fronte ai dilemmi, inquadrandolo in sospensione tra la necessità di non appesantire una vita di precarietà esistenziale e le conseguenze di quelle azioni che di tale anelito di rinascita si fanno portabandiera. Fino a che punto la visuale del traguardo può consentire la riscrittura del reticolo di regole che ci si è imposti? Fino a che punto il disegnare e designare un nuovo codice comportamentale può scorrere via senza conseguenze? Quale giustificazione morale dare al miserrimo “il fine giustifica i mezzi”? Ed a quali mezzi si è disposti a ricorrere per una giusta causa, sempre che quella giusta causa sia effettivamente riconosciuta come tale anche da colui che dovrebbe esserne finale beneficiario?
Un padre, una figlia, appunto. Come la politica indirizzava sulla figlia/nazione i propri sogni devianti, ed anzi li imponeva, forte della classica autorità paternalistica che confonde ed illude, appassiona e sgonfia, bastone e carota con cui svezzare a propria immagine e somiglianza, così il padre affettuoso e non padrone può decidere il futuro della figlia/monade e piegare gli avvenimenti al raggiungimento della meta. A volte basta poco perché la linearità del percorso educativo si frantumi in schegge di non prevedibili novità: una presa di coscienza, un riaffiorare dai precordi del desiderio di essere popolo libero, solo, orfano; oppure (come nella fiction) una pietra che si fa memento della indomabilità del caso, e da cui scaturirà un effetto domino che travolgerà ogni coordinata. La sottile arte del compromesso: quella che Mungiu non giudica, lasciando che siano i suoi personaggi a definirne i confini sempre molto labili (ecco la frase già riportata, circa la impossibilità di coltivare senza affanni il sistema di valori in cui credere, in un Paese spossato, illuso e presto disilluso, piegato su se stesso, abbandonato a sogni di gloria mai veramente perseguiti) e lasciando alla forza scarna delle immagini il ruolo di controcanto morale, di colonna sonora della angoscia (la camera segue spesso le figure da dietro, quasi a volerne scrutare meglio i passi e le non rovinose cadute. Oppure si ferma, senza estasi alcuna, nella registrazione di colloqui – familiari, professionali, sentimentali- di raro e inevitabile grigiore). Non c’è orizzonte plausibile e visibile: l’Inghilterra è posto solamente evocato, schermo falso di desideri provinciali; il sole è astro inesistente; l’amore è parlarsi a distanza, oppure incontrarsi per brevi sessioni di sesso senza gioia, o ancora un girarsi di lato di fronte al dipanarsi degli eventi (si veda la figura di Marius, non sappiamo in verità quanto realmente egoista o menefreghista, ma così dipinto nella rappresentazione della realtà che è l’intima, inconsapevole e molto inutile giustificazione del padre a quei comportamenti che non si riconoscono come propri e che pure ci si ostina a perseguire con ostinazione).
In Un padre, una figlia c’è parola (ordinaria, quotidiana, poco letteraria), immagine (vitrea, essenziale, sporca, spesso riflessa), riflessione esistenziale mai urlata, semmai ripiegata negli interstizi di una smaniosa ricerca di simulacri di verità. E’ cinema che angoscia con levità, che sussurra passioni sotto la cenere, impone interrogativi con la potenza obliqua e trascolorata di un plot elementare (e nemmeno troppo originale). Cinema che pare anche leggermente autistico, nella sua costante autoreferenzialità, nell’elevare a poetica un miraggio di evasione che non si ciba di compromessi ma è costretto a farne e richiederne. Ed è tuttavia cinema che avvince ed appassiona (e nel finale si apre ad una possibile luce, ad un lieto fine che resta sospeso in quanto foriero di nuovi e necessari perchè), non richiede eccessiva attenzione ma continui punti di domanda.
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