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L'estate addosso

Regia di Gabriele Muccino vedi scheda film

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La recensione su L'estate addosso

di scapigliato
2 stelle

Dopo Che ne sarà di noi (Giovanni Veronesi, 2004) l’Italia cinematografica ha individuato nella fuga esotica degli adolescenti – prima fuggivano gli adulti di Salvatores – la modulazione narrativa più per raccontare allo stesso tempo sia la crisi di un paese in fuga, sia lo stato “fuggiasco” dell’adolescenza stessa, individuando nell’esotismo, nel viaggio e nelle turbe sessuali le tematiche più adatte a raccontare i giovani di ieri, oggi e domani. Bell’intuizione. Peccato che a parte Veronesi non c’è riuscito nessun’altro. Last Minute Marocco (Francesco Falaschi, 2007) era indolore e nemmeno la presenza di Mastandrea elevava l’idea del progetto. È sempre Veronesi, nel 2017, con Non è un paese per giovani a fare centro e portare a casa, da Cuba, una simbolica vittoria: quella di un regista bistrattato e sottovalutato – anche per demeriti personali – che però fino ad oggi è l’unico in grado di abbinare commedia e avventura giovanile. Poi, va da se che Riccardo Milani, Paolo Genovese, Alessandro Genovesi, Edoardo Leo e Sydney Sibilia degli ultimi anni hanno saputo prendersi un posto d’onore all’interno della commedia italiana d’autore. Mentre invece, questo Muccino 2016, arranca fin dalle prime battute quando definisce il sistema dei personaggi e il loro universo di appartenenza – la scuola internazionale per esempio: che due palle queste esclusività borghesi, ma parliamo della scuola pubblica piuttosto.

Poco credibili in diversi passaggi le svolte esistenziali e sentimentali, poco telefonate, è vero, ma allo stesso tempo poco strutturate e approfondite. Ok, il cinema è sintesi, ma allora si decida di raccontare solo una storia e raccontarla bene, non più storie, diverse tra loro, tra l’altro in buona parte in inglese che è particolarmente insopportabile, e raccontate pure male. Muccino purtroppo non perde il vizio di “urlare” i sentimenti dei suoi protagonisti fin da L’ultimo bacio (2001), che se fosse restato un unicum l’avremmo particolarmente gradito e applaudito come forma di racconto, ma dover sempre esasperare i sentimenti, renderli patetici e inverosimilmente drammatici come due tredicenni che si giurano amore fino alla morte, è francamente irritante. Molto più sincero, reale e credibile l’impianto narrativo e la storia raccontata in Caterina va in città (Paolo Virzì, 2003), ma stiamo parlandi del miglior regista italiano di commedie tinte da dramma o drammi tinti da commedie dai tempi di Monicelli.

Qui invece, Brando Pacitto, ottimo interprete e ottima maschera del nuovo maschio adolescente italiano, inetto, inadeguato, sessualmente problematico, è una piacevole scoperta, peccato che poi nella storia d’amore con la pur bella e conturbante Matilda Anna Ingrid Lutz, ma non certo credibile come frigida suora il cui padre colleziona i vinili dei discorsi di Mussolini, sbagli clamorosamente l’approccio del personaggio. Tra erezioni notturne e tentativi di rapporti a 3 o a 4, alla fine passa una notte di sesso con una sconosciuta di New York che ne loda la virilità – virilità? 18 anni? – per aver copulato tre volte di fila – chi? Brando Pacitto? Il tutto francamente poco credibile.

Peccato aver sottoimpiegato Ludovico Tersigni Guglielmo Poggi e aver concentrato più della metà del film sulla storia d’amore gay tra i due personaggi americani. Forse Muccino voleva raccontare solo quella storia, ma ha dovuto scendere a compromessi per ovvie questioni, le stesse che castrano il film da un punto di vista sessuale. Oggi, nel cinema main stream soprattutto italiano, va di moda tenere la sessualità esplicita e il nudo fuori schermo sostenendo che è un modo molto più autoriale di raccontare la tematica sessuale invece che scadere nella facile pornografia. Cazzate. È solo pudore democristiano con il quale poi si fanno pure i soldi.

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