Regia di Gabriele Muccino vedi scheda film
Muccino addosso.
Le battute improbabili (ai «centimetri d'imperfezione» parte spontaneo come un gioioso rutto dopo aver ingurgitato due litri e mezzo di una nota bevanda gasata un sonoro "WTF?!!"); i messaggi sovversivi («la vita è sempre pronta a sorprenderti» ... trovato in un biscotto della s-fortuna, eh?); le inquadrature dall'alto e gli svolazzi svalvolati, svuotati di senso, della mdp, così, per darsi un tono da "regista"; la voce narrante che ammorba per tutti i primi dieci minuti e il doppiaggio osceno di Matilda Lutz (poche battute, tortura breve); le stonature narrative (i segmenti ambientati a Cuba e soprattutto a New York brillano per pretestuosità e inautenticità), i siparietti imbarazzanti (la scena nel locale gay) e i climax mutuati da altrove (i «fuck» della fu suora Maria). Amen.
E Jovanotti, la cui voce, opportunamente, a parte un brevissimo frammento danzereccio in interni, si ode solo sui titoli di coda (solerte invito ad alzarsi di scatto dalle poltroncine ... funziona!).
Gabriele Muccino - anche questo lo definirà il suo film più "personale"? - dopo gli ultimi pesanti flop torna in lidi più contenuti, agli albori della sua carriera (Ecco fatto), rifugiandosi nel sempre fertile - e ad alto tasso di identificabilità ed empatia - mondo dei giovani.
Un canonico, prudente coming of age, L'estate addosso, tra i tanti, tantissimi, troppi: il regista e sceneggiatore romano inscena e insegue quella stagione della vita - irripetibile, fondamentale, segnata da cortocircuiti e incontrollabili impulsi emotivi - che segna il passaggio all'età adulta e alla malinconica consapevolezza del tempo che fu. E per certi frangenti pare anche afferrarla, quella meta, quella fragilissima ma seminale transitorietà (riusciti i flashback sulla nascita della relazione tra i due uomini americani), salvo presto e irrimediabilmente franare in basso, verso un grigio, anonimo inverno.
E non solo per i "muccinismi" (isterismi, scene madri, personaggi e dialoghi sopra le righe, attori spaesati e costretti talora all'overacting, passaggi enfatici), invero leggeremente ridotti rispetto al solito, quanto per il senso di pesantezza cui l'evidente trascinarsi della storia porta, per l'insipienza del linguaggio, per la composizione del quadretto alla fine dei conti scontato e insincero, per la banalità e la superficialità delle conclusioni.
Se un valore nel film va trovato, semmai, è nella scelta del parlato italiano-inglese, con il secondo che occupa gran parte della visione costringendo gli spettatori a seguire e leggere i sottotitoli tanto "odiati" (per le nostre discutibili abitudini).
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