Regia di Claudia Brignone vedi scheda film
Verrebbe quasi da dire che La malattia del desiderio sia un film troppo corto: neanche un’ora inabissata in un SerT napoletano, quartiere di Fuorigrotta, nei pressi dello stadio San Paolo. Claudia Brignone, classe 1985, affonda la camera, discreta, precisa e sicura, tra corridoi vuoti e scarni, ambulatori e sale d’attesa, un universo all’apparenza fragile e precario, come fatto di cartone. Niente spiegazioni, introduzioni, dati, didascalie: solo le voci dei tossicodipendenti e dei medici che li assistono. Un percorso accidentato e faticoso, fatto di storie, scambi, conversazioni, confronti, speranze infuocate consumate in fretta, lividi, gonfiori, ferite e sonore ricadute. «Sono vent’anni che mi drogo, non so mica più cosa vuol dire essere normale» dice qualcuno, ma la “normalità” qui non interessa a nessuno: contano i movimenti impercettibili verso un ipotetico domani; contano, soprattutto, l’ascolto, la comprensione, l’infinita pazienza. Brignone, testimone silenziosa, registra un microcosmo che, per molti, assomiglia a un universo parallelo, privo com’è di (pre)giudizio, guidato solamente da una tensione alla conoscenza. Quando, un’unica volta, l’autrice squarcia la parete dell’osservazione muta con una domanda diretta, le sue parole sono le stesse che stiamo rimuginando noi. E quando La malattia del desiderio finisce, troppo presto, con le sue frasi secche, bianco su nero, ha l’ineluttabilità di un epilogo amaro ma, sorprendentemente, per nulla disperato.
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