Regia di Alan Rudolph vedi scheda film
Altman docet.
La terra dei sogni è diventata la terra delle tristezze, i fallimenti dei propri desideri conducono a una frustrazione tale da ripercuotersi nelle azioni reciproche, in attese di risposte non solo affettive ma che rispondano anche a quesiti più elevati. L'esistenza è ridotta alle speranze e alle illusioni, benché tutti sappiano quanto queste illusioni e queste speranze saranno disattese dai fatti, guidati casualmente da circoli viziosi di colpe e mestizie e da caratteri crudeli e privi di morale. Aumenta vertiginosamente e senza controllo il disinteresse nei confronti di un qualunque "darsi un ordine" in una girandola sedata da iniezioni di cupa infelicità metropolitana. "Qui non cambia niente, nemmeno il tempo cambia": una Geraldine Chaplin che mai è stata così somigliante a suo padre è un'eroina romantica finita nel tempo sbagliato, che nel cinema hollywoodiano del passato (adora Greta Garbo) forse ha trovato risposte al sentimento, che non coincide certo coi mostri generati dal "sonno della ragione" di Goya, ma che è la volontà, l'anelito all'amare e al farsi amare. Perso anche l'amore, nella mania crescente del guadagno e del "piccolo" scopo di lucro (Sissy Spacek fresca, giovane e disinibita fa segno di piccolo piccolo con le dita), la quasi totalità dei personaggi di Welcome to Los Angeles si concede a relazioni promiscue e ad una sessualità che non è semplice sfogo degli istinti ma è ricerca ridicola e patetica di un senso al loro comportamento. Nel divario incolmabile fra compassione e critica di costume, Alan Rudolph dirige con abilità antispettacolare e sottile sarcasmo una fetta di umanità che è lo scarto di un mondo del passato, una Hollywood musicale che ha perso divismo, fama, ed è andata disperdendosi in vuoti abissali che il sesso (gratis o per denaro) non è in grado di riempire. Ma allo stesso tempo quel mondo di delusione è illuminato dal faro del protagonista (un Keith Carradine che deve moltissimo al suo personaggio in Nashville di Altman, dov'era altrettanto latin lover) che non è certamente portatore di buone novelle o di migliorìe esistenziali, ma sicuramente, nei caos extra-coniugali e nell'aridità dei rapporti umani dilaganti, riesce ad aumentare la confusione per trasformare quel caos in qualcosa di rigenerante, che possa riportare al principio quei suddetti circoli viziosi assolutamente controproducenti rispetto all'obbiettivo ultimo della felicità umana. Mentre alcuni personaggi in secondo piano (il padre del protagonista, per esempio) sembrano dimenarsi fra cocci di tempi andati e di ricchezze fumose (e muscoli contratti dai massaggiatori), i personaggi principali (essenzialmente sei, una tripla coppia) si scambiano inconsapevolmente i partner, si tradiscono a vicenda, si abbandonano per poi ritrovarsi, e riscoprire effettivamente loro stessi, la loro identità (tre di loro almeno), proiettando lo sguardo verso di noi, che siamo specchio della loro frustrazione perché vi siamo stati direttamente condotti dalla splendida colonna sonora (a cui partecipò in maniera evidente anche Keith Carradine), in andamenti irregolari da cinema americano di una volta che era in grado di prendersi sul serio anche nel momento in cui si autoinfliggeva accuse profonde che non escludevano però la possibilità di nuovi affetti caratteriali. Così in questi atti dubbiosi di amore-odio nei confronti di tutti e sei i personaggi (anche se uno degli uomini è decisamente detestabile), forse Rudolph dimostra di non essere in grado di affrontare il caos umano ed esistenziale, ulteriormente appesantito dal mito di un sogno americano afflosciato, che in Altman esplodeva in funerea vitalità. E non possiamo certo esimerci da un confronto fra i due, proprio perché è Altman a produrre e Rudolph a fare da allievo diligente.
Nonostante all'inizio si faccia fatica a prendere interesse per i personaggi, e le musiche appaiano fin troppo invadenti, almeno finché non se ne capisca il fondamentale ruolo (o finché non si finisca per trovarle bellissime), il ritmo infine prende una piega prevedibile ma efficace, ed è in grado di realizzare costruzioni sociologiche che hanno sicuramente un loro profondo valore. E se Geraldine Chaplin, che pure qui è impegnata in una delle sue caratterizzazioni migliori, e Sissy Spacek appaiano al limite del caricaturale, d'altro canto il 'sopra le righe' diventa canone razionalizzante di un discorso quasi didascalico di cui Rudolph si fa scappare i toni declamatori e convinti della propria affermazione poetica nell'immagine (certi primi piani fin troppo eloquenti). Sicuramente però si tratta di limiti che soltanto uno spettatore avvezzo al cinema americano di quegli anni - e che straordinariamente non invecchia - noterà, e che, anche individuati, si mettono da parte per permettere a sé stessi (spettatori) di farsi prendere, ancora di più che dalla malinconia diffusa in tutta la pellicola, dalla nostalgia nei confronti di un cinema che veramente è trapassato, e che oggi non potrà mai essere abbastanza umile da evitare la sfacciata sperimentazione.
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