Regia di Gabriele Mainetti vedi scheda film
Enzo Ceccotti (Claudio Santamaria), un ladruncolo di Tor Bella Monaca, per sfuggire a degli agenti di polizia che lo stanno seguendo si butta nelle rive del Tevere. Qui viene a contatto con dei misteriosi barili posti sotto il fondale del fiume romano. Ci doveva essere qualche sostanza particolare in quei barili, perché Enzo scopre di essere entrato in possesso di poteri sovraumani. Inizierà ad usare questi poteri per le sue ruberie e il mondo della rete conoscerà presto le gesta di questo ladro ercoluto che usa strappare dal muro delle banche la cassa del bancomat. A riconoscerlo come il misterioso uomo mascherato è una sua vicina di casa, Alessia (Ilenia Pastorelli), che essendo una fanatica delle anime giapponesi “Jeeg Robot d’acciaio”, identifica Hiroshi Shiba in Enzo. Alessia è una ragazza con gravi scompensi psichici, ha bisogno di aiuto per non sentirsi sola ed Enzo è disposto ad aiutarla, anche perché non ha il coraggio di dirgli che il padre (Stefano Ambrogi) è morto durante uno scambio di droga finito male. I poteri di Enzo vengono presi di mira anche da Fabio Cannizzaro detto lo Zingaro (Luca Marinelli), un boss della malavita romana che ambisce a diventare sempre più potente anche grazie all’alleanza con il clan camorrista capeggiato da Nunzia Lo Cosimo (Antonia TRuppo). Lo Zingaro vuole scoprire da dove provengono i super poteri di Enzo e come fare per entrarne in possesso.
“Lo chiamavano Jeeg Robot” di Gabriele Mainetti è un film che presenta tutti gli ingredienti tipici per farsi piacere con appassionata sincerità. Perché è un film che sa essere furbo senza apparire disonesto, è costato poco ma osa tanto, gioca di sponda col cinema di ogni dove ma rimane un’opera italianissima, omaggia candidamente i tipi della Marvel anche se gigioneggia col supereroismo “de’noiantri”. Quando si dice equilibrio tra la descrizione d’ambiente di un milieu criminale e la scelta volontaria di non prendersi troppo sul serio. Quando si dice armonia tra la più classica delineazione del malaffare di borgata e la spinta a vedere oltre confine determinata dallo scontro “titanico” tra due super eroi che avvolge e coinvolge la storia. Quando si dice unire in un intrigante connubio sonorità vintage e modernità di linguaggio, vulgata gergale e freschezza stilistica, derive splatter e voglia di tenerezza, familiarità coi caratteri dei personaggi ed eccezionalità delle situazioni rappresentate, prossimità della location e respiro internazionale.
“Lo chiamavano Jeeg Robot” è un film imperfetto sapendo benissimo di esserlo, perché la sua forza sta proprio nella veracità di fondo che lo contraddistingue, nella sua impurità calcolata, nel suo farsi opera dalle sfumature polivalenti, alta e bassa, trasversale e di genere, manierata ed originale, leggera e riflessiva. Un’alchimia dai toni “tarantiniani” oserei dire, che Mainetti maneggia con spudorata padronanza di mezzi e di stile, calando in una dimensione cartoonesca la storia fantascientifica di un supereroe occasionale, e facendo degli effetti speciali l’elemento di supporto (neanche tanto pervasivo) delle vicende molto umane di ordinari esecutori del crimine organizzato.
In questo film, tutto funziona per come e quando deve funzionare, come quelle cose che si prefiggono uno scopo preciso e riescono nell’intento di raggiungere l’obiettivo. Alla fine se ne ricava un quadro dove ogni singola cosa si trova esattamente al posto in cui doveva stare, dove a prevalere, piuttosto che i difetti presenti, è l’armonia dell’insieme. L’evoluzione esistenziale di Enzo Ceccotti che da ladruncolo approfittatore si accorge di poter diventare il salvatore degli indifesi ; la complessità psichica di Alessia, emblema della sincerità calpestata dalla violenza genitoriale ; il sentimento che nasce e cresce tra di loro, due anime in pena che si specchiano nelle reciproche solitudini ; l’incontro scontro tra le bande criminali per la conquista del territorio, fatto oscillare tra eccessi sanguinolenti e tonalità fumettistiche ; la caratterizzazione delirante dello Zingaro, uno psicopatico che vive in ragione del suo ego, amante della musica anni ottanta e ansioso di diventare il boss della capitale ; l’intrusione discreta di Jeeg Robot d’acciaio, il manga giapponese che, da eroe immaginario di una ragazza bisognosa di sicurezze, si trasforma in un’idea concreta di riscatto sociale ; l'epilogo finale con accenni "catastrofisti", che raggiunge il suo climax ideale con naturale scioltezza. E’ azzeccato anche l’espediente usato per dotare un essere umano di poteri eccezionali : ottimo nella sua semplice e banale funzionalità narrativa.
Due almeno sono le sequenze da antologia. Quella in cui lo Zingaro canta “Un emozione da poco” cercando di ricalcare le orme di Anna Oxa, con una leggiadria dei movimenti che sembra voler fare da preludio all’accordo prossimo con il boss della camorra napoletana Nunzia Lo Cosimo. E quella in cui lo Zingaro arriva fino a Scampia e sotto le note di “Ti stringerò” (cantata da Nada) inscena una sorta di danza macabra per sbaragliare definitivamente il clan camorrista e segnare il suo incontrastato dominio sulla capitale. Con un telefono che riprende tutta l’escalation della sua impresa. In entrambe emerge prepotente la figura filiforme di Luca Marinelli, perché Claudio Santamaria è bravo (qui come altrove), come bravi sono anche l’esordiente Ilenia Pastorelli e quasi tutti gli attori di contorno (soprattutto Antonia Truppo), ma la perfidia mefistofelica di uno che vuole essere cattivo a tutti i costi, la vulgata romanesca da bullo di quartiere e il tono vintage di un aspirante canterino, sono aspetti caratteriali dello Zingaro che emergono sopra tutti e tutto.
A mio (modesto) avviso, “Lo chiamavano Jeeg Robot” rappresenta uno degli esiti più positivi di questi ultimi anni del cinema italiano, e non perché sia un capolavoro o un film bello in assoluto, ma per la vitalità originale che lo caratterizza, per la freschezza che sa sprigionare, per il divertito godimento che sa suscitare. Tutte cose che servono a farlo diventare il tipico cult movie capace di imprimersi nel tempo nell’immaginario collettivo. Come Hiroshi Shiba, Miwa che porta i componeti a Jeeg Robot con il Big Shooter e la regina Himika.
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