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Lo chiamavano Jeeg Robot

Regia di Gabriele Mainetti vedi scheda film

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La recensione su Lo chiamavano Jeeg Robot

di Immorale
8 stelle

Un eroe "scocciato".

Il film rivelazione del 2016 arricchisce il panorama cinematografico italiano di un filone finora assente, quello supereroistico, normalmente prerogativa di altri lidi, magari bagnati dall’oceano e non dal Tirreno. Questione di capitali, senz’altro, e di star superpagate da infilare dentro costumi, reali o digitali, altrimenti ridicoli.

 

 

Mainetti invece, al suo “insospettabile” esordio, si muove con sicurezza dentro una serie immancabile di cliché, inevitabili in una storia di formazione di un super-personaggio, quali l’antefatto, la presa di coscienza, la consapevolezza e le spinte motivazionali, ma declinati con tocco autoriale unico. Perché un conto è svolazzare o combattere tra i grattacieli di New York o Tokio, un altro a Tor Bella Monaca, dove non passano neanche gli autobus. La sceneggiatura ci descrive quindi un eroe riluttante e dalla aspirazioni limitate, che non siano il proprio personale tornaconto e la sopravvivenza spicciola.

 

 

Il campo d’azione è suburbano (Roma è al 90% periferia), quasi pasoliniano, di quella grossolanità paesaggistica (i “tipici” campetti incolti che costeggiano le millenarie arterie capitoline) e di modi, quest’ultima caratteristica specifica del sottoproletariato criminale della capitale: stradaiolo, disperato e violento, dall’organizzazione orizzontale e con pochi pesci grossi. Retroterra sociale ma soprattutto ambientale trattato con riguardo e sguardo sicuramente affettuoso, almeno per quanto consentito dall’ottimo estro del direttore della fotografia Michele d’Attanasio che conferisce alle immagini, con i suoi morbidi colori, un tocco da cartoon giapponese d’antan.

Tutti i personaggi anelano comunque la fuga da una realtà immota e raggelante: chi rifugiandosi nell’indifferenza, chi nella voglia di “sfondare” (in qualunque modo) e altri nella fantasia di eroi impavidi e perfidi supercattivi.

 

 

La fluidità della storia risulta poi agevolata dalla contrapposizione dei caratteri dei protagonisti, tutti a loro agio nell’uso di un dialetto romano al limite dell’intellegibilità (un paio di battute, pur essendo originario della zona, hanno necessitato di un secondo ascolto), elemento che, escludendo il mero intento campanilistico, ammanta di “verismo” (un po’ alla maniera di “Gomorra – La serie”) una vicenda ovviamente di fantasia. Ma con pesanti agganci con la realtà quali l’infinita “guerra” criminale per gli appalti, il “virale” uso degli smartphone e la tendenza all’overacting tipica dei romani.

 

 

Tutti elementi che non rendono facile la vita di un supereroe di borgata; non puoi difendere il mondo dai mostri Haniwa e non puoi lanciare magli perforanti. Ma puoi salvare la “gggente”, magari tifosi della Roma e della Lazio che non si salverebbero mai a vicenda, e divertire lo spettatore per un paio di spensierate orette.

 

 

 

 

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