Regia di Gabriele Mainetti vedi scheda film
Un ladruncolo romano cade nel Tevere e acquisisce dei superpoteri: diventa forzuto all'inverosimile e praticamente immortale. Prende a cuore la vicina di casa, una bella ragazza un po' stupida (che lo scambia per Jeeg Robot, eroe dei cartoni animati) il cui padre è rimasto ucciso in un'azione malavitosa; la ragazza è perseguitata dallo Zingaro, un piccolo boss locale. 'Jeeg Robot', pur controvoglia perchè schivo e amante della solitudine, decide di intervenire per mettere a posto le cose.
Fare un film 'di genere' in Italia nel 2016 è un'impresa suicida, semplicemente suicida. Il regista Gabriele Mainetti - opera prima - e gli sceneggiatori Nicola Guaglianone e Roberto Marchionne, alias il fumettista Menotti, tentano l'impossibile e, va loro senz'altro riconosciuto, parzialmente vi riescono: Lo chiamavano Jeeg Robot è una pellicola di azione, ritmo, sentimenti forti (e facili), non priva di un certo fascino nella costruzione narrativa e dei personaggi, confezionata con mezzi pochi, ma ben assortiti, gusto estetico e perizia professionale: buon artigianato made in Italy, come ai bei vecchi tempi. Tutto nasce e si spiega già dal titolo: se Jeeg Robot è ovviamente un riferimento ai supereroi a cartoni animati degli anni '80 (periodo dal quale pare ossessionato lo Zingaro, uno dei personaggi centrali del film), "Lo chiamavano" è invece la classica formula con cui prendevano vita nei decenni scorsi innumerevoli titoli di film nostrani di serie B (anche Lo chiamavano Trinità partì come spaghetti western, per divenire poi un enorme successo di pubblico); insomma: 'genere' più supereroi in salsa anni Ottanta. E cioè, definendo in maniera ancora più approfondita gli obiettivi dell'opera: un film italiano di eroi fumettistici, autoironico e atipico per scelta, ma aderente ai canoni del filone. Eccoci pertanto giunti alle dolenti note: quanto Lo chiamavano Jeeg Robot è effettivamente aderente ai suddetti canoni del filone fumettistico dei supereroi? Al 100%. Troppo. Tanto da risultare prevedibile e quindi scontato ripetutamente: perchè Santamaria entra in scena lanciandosi da una finestra (oppure perchè non evita di farsi notare dallo Zingaro, nella scena precedente)? Come può essere certo di rimanere sempre illeso nelle sue numerose azioni da supereroe? La risposta sarà sempre: perchè così fanno i supereroi. Perchè così vuole il copione, lo standard. Quante altre volte abbiamo visto messa in scena la burinità romanesca (la pellicola si apre su Castel Sant'Angelo e si chiude col derby della Capitale) a rappresentazione della mediocrità dell'italiano medio? Infinite, basti pensare anche solo ai cinepanettoni. E allora il film si morde la coda, come il proverbiale cane a simbolo del paradosso: l'opera di Mainetti trasuda in fin dei conti l'ambizione di essere differente, di essere qualcosa di mai visto prima, per poi sprofondare nelle ovvietà più risapute e - quando non annoia direttamente - far storcere il naso allo spettatore che crede nella giustezza delle ambizioni del prodotto. Abbandonarsi ciecamente a esso e ai suoi luoghi comuni, alle sue banalità, ai suoi momenti telefonati significa soltanto non condividerne lo spirito ribelle, rivoluzionario di base: cosa che francamente con difficoltà interessa al pubblico appassionato di fumetti, che è l'unico che può concedersi a Lo chiamavano Jeeg Robot incondizionatamente, godendoselo appieno. Claudio Santamaria e Luca Marinelli (La solitudine dei numeri primi, Non essere cattivo) ad alti livelli; meno apprezzabile il resto del cast, specie la ex-Grande Fratello, qui insipida esordiente, Ilenia Pastorelli. A prescindere da ciò che si pensa di questo film, Gabriele Mainetti - che si occupa anche della parte produttiva e della colonna sonora - è comunque candidato a diventare un nome interessante del cinema italiano. 4/10.
Non ci sono commenti.
Ultimi commenti Segui questa conversazione
Commenta