Regia di Gabriele Mainetti vedi scheda film
L'esordiente Mainetti manipola abilmente tutte le sue fonti, confezionando un film di genere apparentemente impeccabile e visivamente forte, anche se un po' derivativo. Sbanda forse un po' troppo quando cerca di definire a fondo alcuni caratteri e di addentrarsi nei territori abusati del sociale.
Questa non è una vera recensione, ma solo un accumulo di considerazioni nate dall’esigenza di raccogliere le idee e le sensazioni scaturite dopo la visione di Lo chiamavano Jeeg Robot, film italiano simbolicamente importante e imperfetto. Non può essere una recensione perché parte dal raffronto con un’altra analisi, letta altrove, sul film (non citerò autore e fonte perché non so se è consentito farlo), forse l’unica ad aver espresso con cognizione di causa e senza eccessi enfatici la vera natura di questa operazione, pur difettando di approfondimento nella parte in cui si dovrebbe parlare degli aspetti lacunosi del film, solo accennati, che giustificherebbero il giudizio finale. La prima considerazione, da condividere, è l’apparentemente banale motivazione anagrafica. Gabriele Mainetti è nato nel 1976, e non avrebbe potuto essere altrimenti. Il regista – attore rielabora o tenta di rielaborare in modo originale una serie di motivi e feticci della generazione che nasce, orientativamente, tra la seconda metà degli anni ’70 e la prima degli ’80. Un “pasticciaccio brutto” di generi e subculture attraversava quell’epoca, l’epoca delle prime televisioni private, che con scaltrezza e non altrettanta accortezza proponevano programmi provenienti da culture lontane, o almeno non profondamente comprese: il supereroismo, l’amore per i fumetti e i miti hollywoodiani rimasticati passavano attraverso il successo dei telefilm USA anni ’80, chiassosi e scanzonati. Il lato cupo di quelle produzioni era rappresentato probabilmente dagli anime giapponesi, attraverso i quali, poco più tardi, quei bambini e spettatori più o meno passivi avrebbero scoperto anche i manga. L’abnegazione dei giovani personaggi alla propria missione, la sottile traccia di violenza e dolore celata nelle loro storie e la mascolina ed energetica potenza dei disegni fermentavano nelle menti dei piccoli spettatori, esposti a quei prodotti a partire da un’età molto tenera e spesso esposti anche alla confusione generata da tagli e censure che le reti italiane, in particolare l’affermata Fininvest, erano costrette ad operare per rendere fruibili i loro acquisti, altrove rivolti ad un pubblico un po’ più maturo (in genere almeno preadolescente). Mainetti si riappropria di quella materia in maniera consapevole, avendo probabilmente digerito quei miti, quelle iconografie e quei significati, come alcuni dei suoi coetanei o quasi, sottoposti ad una precarietà a tutto tondo che li allontana dalla passione “politica” in tinta fanatista dei sessantottini e dei baby boomers. Non è certamente sopraffatto dal mito, dalla fan-fiction fine a se stessa e dalla celebrazione, ma non è detto che tutti i suoi spettatori non lo siano, e per questo sfrutta in modo astuto ma del tutto adeguato quell’immaginario. La commistione, non originalissima in senso assoluto ma certamente tale in territorio italiano, tra l’anime giapponese e la realtà italiana allora è un’arma da utilizzare, un percorso da solcare seguendo pedissequamente le regole della narrazione, che è classica anche se non lo sembra. Il sottobosco in cui si muovono i personaggi del film è piuttosto realistico in quanto a linguaggio, costumi, ambientazioni e gestualità, ma da quella realtà deve in parte discostarsi per costruire caratteri accattivanti e riconoscibili, come accadeva per (riferimento fin troppo ovvio) Romanzo Criminale. La violenza e il sangue sono più tangibili che nel citato Tarantino, anche se a tratti sembrano prediligere la via dell’orrore, per esempio quando l’antagonista, il nervoso e scattante “Zingaro” di Marinelli, viene bruciato vivo e riemerge dalle acque sordide e “radioattive” del Tevere più forte e temibile, come una sorta di epigono di Freddy Krueger e recitando come il Buffalo Bill de Il silenzio degli innocenti (da un’intervista dello stesso Mainetti). Il realismo documentaristico è lontano anni luce, come è giusto che sia,e in fondo si fa intrattenimento: ma il film, ebbro delle sue visioni e suggestioni più o meno dosate (come hanno sottolineato alcuni, il duello finale risulta essere un po’ banalotto e non proprio d’impatto, nonostante il particolare raccapricciante che la accompagna), inciampa più volte nelle tentazioni da dramma sociale.
Il percorso di Enzo, che scoperta la sua straordinaria forza si comporta peggio di prima e passa poi attraverso una serie di esperienze che lo cambiano, è abbastanza credibile e lento, ma soffre di alcuni voluti appesantimenti. In primo luogo, la Tor Bella Monaca in cui vive è davvero “troppa”: simbolo esagerato del degrado italiano, dell’abbandono delle periferie, ecc… Più che pareti affumicate e bugigattoli in cui vivere quello che veramente spaventa, nelle periferie ed altrove, è il degrado intellettivo ed emotivo, che infatti compare, ma con gli opportuni corollari. In alcuni momenti le ambientazioni risultano più variate ed efficaci, come quando si esplora il raccordo e la provincia (il Luna Park semi abbandonato ma in buono stato) o addirittura il semi - centro (il tram bloccato), ma di periferia marcia ne avevamo vista già tanta negli ultimi anni e qualche volta esplorata anche meglio. In una scena ambientata in un motel Enzo racconta alla sua amata la sua infanzia difficile, con una serie di flashback tutto sommato non necessari che ricordano alla lontana il pomposo ralenty con cui Placido introduceva le “belle speranze” dei suoi protagonisti, i piccoli mostri in erba di Romanzo Criminale (sempre quello: ma lì Santamaria era il cinico Dandy, mentre il suo Ceccotti sembra essere più affine agli altri due della banda).
Emblematico, poi, è che quella scena avvenga dopo uno sviluppo della trama abbastanza discutibile: l’ingenua Alessia, figlia del vicino di casa e “compare di merende” di Enzo, lo bacia entusiasta in camerino per aver ricevuto in dono un costume da principessa, ed Enzo la stupra. Alessia è colei che ha dato titolo al film, vista la sua passione smodata per Jeeg Robot d’acciaio, cartone giapponese che, vista la giovane età, deve aver visto da piccolissima in una delle innumerevoli repliche su Retecapri. Alessia in realtà non si sa bene quanti anni abbia: veste come un’adolescente qualunque di estrema periferia, ostentando una sensualità inconsapevole che Enzo e molti altri trovano forse provocante, il volto rivela circa 25 anni e ricorda molto quello de “la ragazza dalla bocca rifatta”de L’imbalsamatore, grazioso ma spesso contratto in una smorfia immiserita, mentre le sue emozioni e i suoi pensieri espressi a voce alta non le fanno attribuire più di otto- dieci anni. Ama le principesse ma anche il cartone “da maschi” Jeeg Robot, e ammira Hiroshi per la sua forza e la sua bontà. Quella bontà favolistica le è stata sempre negata: attraverso qualche frase smozzicata e ad alcune reazioni estreme al contatto fisico si intuisce neppure velatamente che è stata vittima di abusi fin da bambina, prima dal padre e poi da alcune figure che avrebbero dovuto “curarla” dopo la morte della madre, vista l’evidente degenerazione del dolore in “follia”. Non è chiaro se sia clinicamente pazza, visti gli sprazzi di lucidità mostrati, ma certamente non appare come una persona pienamente in grado di intendere e di volere: lo stupro, per il quale il protagonista “rozzo, ma in fondo buono”, chiede scusa, è l’inizio di una storia d’amore in cui una delle parti è decisamente poco attiva e l’altra fa tutto il lavoro. Alessia è un agnellino sacrificale che, infatti, viene sacrificato, dando il via alla redenzione del protagonista .
È costantemente e volutamente vittima, confermando che il pubblico “geek” è ancora una volta restio quando si tratta di concepire personaggi femminili complessi, preferendo scegliere tra due poli opposti: la femme fatale (meglio se sanguinaria e stronza) e la giovinetta abusata, eterna bambina. In Lo chiamavano… praticamente non compaiono altre figure femminili di spicco: Nunzia, maschiaccia napoletana, è una camorrista macchiettistica e semi muta, come nella scena in cui lo Zingaro l’abbraccia “ a morte”; Marcellone è un immenso clichè utile a cementare l’immagine perversa e ridicola del “cattivo”, appassionato di trans e travestimenti persi in prestito, com’è ovvio, dalla scena musicale di fine anni ’70. Si potrebbe obbiettare che una figura più volitiva di Alessia, in quel contesto, sarebbe stata inadatta, ma è indubbio che noi spettatrici appartenenti a quella famosa generazione di Alessie ne abbiamo viste tante, e quasi mai nella nostra realtà ma quasi sempre disegnate, cantate, osannate come simbolo di purezza irraggiungibile. Un po’ Georgie, o forse persino un po’ Lovely Sara, certamente lontanissima dalla forza di Nausicaa della valle del vento ma anche dalle contraddizioni di una Lady Oscar, in conflitto tra risolutezza e fragilità.
(3 stellette e un quarto. 6,5 insomma)
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