Regia di Gabriele Mainetti vedi scheda film
Senza tirare ancora in ballo Brecht e i paesi che non hanno bisogno d’eroi, posso dire che, più modestamente, il cinema italiano aveva bisogno di Gabriele Mainetti? Della sua audacia, del suo progetto, della sua visione? Magari posso ma soprattutto voglio, perché Lo chiamavano Jeeg Robot conferma una teoria vecchia ma che ripropongo con magno gaudio: le cose più interessanti, stimolanti e originali prodotte dal cinema italiano contemporaneo (diciamo dopo la magica combo Gomorra/Divo del 2008) sono dovute ad esordienti o comunque alla seconda opera.
È secondario che poi questi film non siano del tutto compiuti o presagiscono la latitanza di un’ulteriore idea: per ragioni naturalmente diverse, Smetto quando voglio, Salvo, Corpo celeste, Noi e la Giulia, La mafia uccide solo d’estate, ACAB manifestano la volontà di andare al di là del seminato, oltre il famoso due-camere-e-cucina degli anni novanta ma anche superando le derive rullipetraglistiche del cinema medio-borghese, sono film che presentano un nuovo sguardo sulle cose.
Lo chiamavano Jeeg Robot è l’ultimo e forse più aureo esempio di questa tendenza, una boccata d’ossigeno per evacuare un momento dalle stanze delle pur ben oliate commedie della chiacchiera o dagli interni ostili dei comunque ammirevoli drammi esistenziali. All’interno del “genere”, roba che in Italia abbiamo inspiegabilmente deciso di delegare alle esperienze occasionali degli alfieri del low budget, Mainetti rivendica il primato dell’artigianato nostrano, realizza intelligentemente un film incentrato sul corpo che scopre una forza nuova non dimenticando mai la persistenza dell’umano travolto da quella stessa forza nuova. Con un’abilità tecnica che sa dissimulare i limiti del budget attraverso invenzioni che bagnano il naso alla tradizione nostrana di un cinema che torna ad essere capace di pensare in grande facendo di necessità virtù.
Qui si trova una via italiana al genere meno italiano possibile. Benché onestamente mi venga in mente soltanto la cialtronesca parodia pop Arriva Dorellik, c’è da sottolineare che questa alternativa nazionale al genere è filtrata da una spudorata ironia che, con un atteggiamento molto italiano, prende sul serio il fantastico con scetticismo indolente. La presenza di Roma è in questo senso davvero fondamentale perché è il luogo in cui si riesce a trovare questo straordinario equilibrio sospeto tra fatalismo e pigrizia, malinconia ed eccitazione, famo er botto e sticazzi.
E sì, fa molto ridere questo humus romanesco che sublima un’intera nazione in nome dell’intrattenimento, nel bel mezzo di bombe e attentati e manifestazioni contro la violenza qualunque essa sia – com’era? il paese che non ha bisogno d’eroi? ecco qua il paese, ecco qua gli eroi. Ecco qua Claudio Santamaria nel ruolo della vita, ecco qua i suoi occhi persi nell’incomprensione dell’(ir)reale, ecco un personaggio colto nel suo romanzo di formazione, ecco la lingua che lecca la carta dei budini e le mani che schiacciano un radiatore, ecco la scoperta dei poteri ma anche dell’amore per l’inedita e vivida Ilenia Pastorelli, ossessionata da Jeeg Robot. Ecco la narrazione popolare che entra nell’immaginario, nella vita del popolo.
Ed ecco qua pure i cattivi, anzi il cattivo che se magna tutti gli altri per dichiarata superiorità, un villain che nel cinema popolare non si vedeva forse da quattro decadi, un prodotto della televisione che è in noi, il risultato di un’isteria individualistica e della megalomania dei buffi che lievitano, l’iconografia e i ritmi degli anni settanta quasi ottanta (epoca della paranoia a cui sembra rifarsi la situazione politica della storia), un infinito Luca Marinelli che quando si esibisce in Un’emozione da poco è devastante. Ecco, a dispetto di qualche sbavatura (il camerino?) su cui passo volentieri sopra, un film appassionato, divertentissimo, emozionante.
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