Regia di Marco Bellocchio vedi scheda film
Massimo ha perso la madre quando aveva nove anni: tutta la sua vita un po’ sbandata è stata la storia della mancata elaborazione di un lutto accanto a un padre chiuso e ombroso (“Parliamo d’altro?” “È tutta la vita che parliamo d’altro”) che con il figlio condivide solo la fede calcistica per il Torino; qualcosa è rimasto sempre in sospeso, un nodo che né la governante che si è presa cura di lui, né i sacerdoti, né le amicizie e gli amori dell’età adulta, né il mestiere di giornalista hanno potuto sciogliere. Il film funziona come racconto di un’ossessione sottile, indefinita e perciò inquietante, simile a un puzzle a cui manca un tassello senza che si sappia quale. Il problema è che ci sono troppe altre cose, che danno l’impressione di essere state messe lì come riempitivi: personaggi che scompaiono subito (il compagno di scuola e sua mamma) o comunque evanescenti (la dottoressa), una parte centrale troppo divagante sui fatti di cronaca (Mani Pulite, l’assedio di Sarajevo); d’altra parte la morte della madre è così avvolta nel mistero che la rivelazione finale non sorprende neanche chi (come me) non ha letto il libro autobiografico di Gramellini: semmai sorprende che in tanti anni Massimo non abbia mai trovato quell’articolo di giornale piegato fra le pagine di un libro, o che nessuno si sia mai fatto sfuggire una parola sbagliata in sua presenza. Insomma, un’occasione colta a metà.
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