Regia di Marco Bellocchio vedi scheda film
Traendo liberamente lo spunto dal romanzo autobiografico di gran successo di Gramellini, è una storia trafitta da un dolore lancinante prima del bambino e poi dell’adulto Massimo, un dolore così sanguinoso e impresso nell’anima e nella mente che il protagonista della storia non riesce assolutamente a mettere da parte, nonostante gli sforzi.
A 51 anni di distanza dal sorprendente esordio nel lungometraggio con I pugni in tasca, in cui il regista in qualche modo mostrava la disgregazione di una famiglia e della società borghese negli anni che circondano il fatidico '68, Marco Bellocchio, lui sessantottino purosangue, torna a guardare all’interno di una famiglia, come ha fatto anche in altre occasioni. Traendo liberamente (questo avverbio deve essere tenuto presente) lo spunto dal romanzo autobiografico di gran successo di Massimo Gramellini, è una storia trafitta da un dolore lancinante prima del bambino e poi dell’adulto Massimo, un dolore così sanguinoso e impresso nell’anima e nella mente che il protagonista della storia non riesce assolutamente a mettere da parte, nonostante gli sforzi, non enormi di certo. Ci vive “dentro”, ci sguazza come in un liquido amniotico in cui preferisce non crescere ma rimanere a ripensare alla mamma bellissima sorridente affettuosa che ritagliava e incollava nell’album le fotografie di Gianni Moranti e Caterina Caselli, che giocava a nascondino con lui e se non la ritrovava lo assaliva il terrore più profondo. A pensarci bene il Massimo adulto, senza donna, senza amicizie, non vuole neanche dimenticarla e andare oltre, anche perché dopo averla persa così presto, come un nascondino andato male, ancora non ha capito né il motivo né le modalità di quella perdita. Per lui più che altro è un’assenza senza motivo, senza giustificazioni. Non riesce ancora a darsi una spiegazione logica che lo tranquillizzi. E quindi vive la sua vita senza emozioni, come in una continua paralisi emotiva.
È il dolore il filo conduttore, quindi, che attraversa tutto il film senza che mai diventi – per fortuna, il rischio era dietro l’angolo - un’opera melodrammatica, cosa che l’avrebbe rovinato. Film diviso in due tronconi: il prima (o il durante se vogliamo, il durante del verificarsi della tragedia) e un dopo, quando Massimo è ormai un quarantenne che non è capace di dimenticare ed elaborare il lutto. La prima parte è piuttosto descrittiva e con scarsi dialoghi, perfino troppo ma volutamente ripetitiva tra episodi vissuti e ricordi ricorrenti, la seconda viene narrata con dialoghi ben scritti ed intensi. Il papà ormai adulto non lo aiuta, sempre con il suo viso severo come se avesse sempre pronto un rimprovero per lui, al contrario della mamma che, fin quando non la aveva assalita quella strana e misteriosa malinconia, gli sorrideva sempre e lo coccolava anche con un bel latte caldo mentre faceva i compiti. Gli avevano detto che la mamma era andata in ospedale ma lì non lo portavano mai. Perché? Poi era saltati fuori che era stato un “infarto fulminante”. Tutta la vita a riflettere sul questo termine, infarto fulminante.
Chi può salvare Massimo? Chi lo può portare finalmente alla vita normale, a fargli aprire gli occhi, a guardarsi attorno, con occhi più sereni? C’ha provato anche il suo insegnante prete quando era ancora adolescente: “Se lei fosse ancora qui…” “Se… Il ‘se’ è il marchio dei falliti! In questa vita si diventa grandi ‘nonostante’!” Ci vorrebbe un dottore, ci vorrebbe un’analista. Invece il destino lo porta una notte davanti ad una bella dottoressa. Una donna. E solo una donna sensibile sarà capace di entrare nel suo intimo e nel suo dramma interiore. “Fai bei sogni” le sussurrava la mamma quando lo metteva a letto. “Fai bei sogni” gli disse quell’ultima notte. Il destino però ha riservato a Massimo la svolta necessaria con l’incontro con la dottoressa Elisa, che abbracciandolo gli indica la giusta via, la medicina necessaria per liberarlo dalla sua ossessione, per girare finalmente l’angolo della vita e non guardare più indietro dove si staglia la presenza della mamma: “Lasciala andare…”.
Valerio Mastandrea è bravissimo, forse nel suo primo ruolo veramente drammatico della sua carriera e forse la sua migliore prestazione di sempre, ma si fa fatica ad identificarlo con Massimo Gramellini, così diverso di carattere e di fisico, ma va benissimo. Mastrandea è sempre così bravo a recitare in sottrazione, in personaggi taciturni e malinconici e dopo qualche sequenza ci si accorge che è tagliato alla perfezione per questo ruolo, dove solo in un’occasione fa sfoggio della sua ironia che il pubblico in sala gradisce, allentando per un solo momento la tensione che il film ha creato. Tenerissimo il bimbo, molto bravo. Pur se solo in brevi apparizioni, bella ancora una volta lezione di recitazione di Fabrizio Gifuni, in un personaggio tutto particolare e sopra-sotto le righe, e soprattutto del fantastico Roberto Herlitzka, che ogni volta è un piacere vedere e sentire, quasi sempre presente nelle opere di Marco Belloccio.
Film non esente da difetti: in primis la lunghezza (due ore e un quarto è un po’ troppo) in quanto qualche sequenza si poteva fare più corta, e poi lunghi momenti di scarsa presa se non di lentezza. Ma come si può raccontare il dolore senza diventare leziosi? senza sconfinare nel mélo? Ebbene il regista piacentino ci riesce e questo è un gran merito. Sì, ci sono momenti di commozione, quella giusta ed inevitabile per una storia come questa, soprattutto ripensando che è (quasi) tutta vera. Beh, Bellocchio è sempre Bellocchio e lui non è mai banale, anche quando, come in questo caso, non eccelle e deve combattere con la retorica gramelliana che ben si conosce, anzi quasi la utilizza con la sua tipica ironia graffiante, la schernisce, la inganna, la sfrutta per poterla rendere innocua. Tant’è vero che il regista aveva chiesto allo scrittore assoluta mano libera, distaccandosi dal libro originario, per poterne essere fedele ma anche infedele, adattandolo alla sua filosofia di cinema. Ma secondo me il film va visto, perché la sua è sempre una regia attenta e precisa e gli animi li smuove sempre. Che si pretende di più da un grande regista sempre coerente con il suo cinema?
Una menzione importante va fatta alla fotografia di Daniele Ciprì: bellissima e perfettamente intonata ai mitici anni ’60, tirati continuamente in ballo dalla “Canzonissima” di Raffaella Carrà e dal tenebroso bianco e nero del “Belfagor” televisivo. La scelta di adottare una precisa desaturazione cromatica, che pare da un momento all’altro ingiallire come una vecchia foto dell’album della mamma che Massimo conserva ancora, porta anche verso un marrone scuro che va a braccetto con l’atmosfera di lutto continuo, con il viso del papà sempre accigliato, come la vita del protagonista, che alla fine trova pace e i colori della vita.
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