Regia di Paolo Virzì vedi scheda film
Il mio punto di vista è concentrato sulla trama, le protagoniste e la loro condizione di difficoltà reale. Descrive molte scene e parla della Tedeschi in modo entusiasta. Racconta in fine, in breve, che io faccio parte di quel mondo considerato dei DIVERSI e sono alla ricerca della felicità e simili. In sintesi dico che il film è bello e va visto.
Ieri sera è iniziata la stagione Cineforum di San Bonifacio, uno dei paesoni della provincia di Verona,e, in particolare del Cinema Centrale, l'altro cinema da noi, che proietta solo i cicli di Cineforum ed è dichiaratamente a guida cattolica, sempre più spaziosa, dico, nei 51 anni di vita regolarmente corroborata dalla proposizione di due rassegne l'anno. E' iniziata con LA PAZZA GIOIA di Virzì (con la Archibugi co-sceneggiatrice), film che offre a Valeria Bruni Tedeschi la possibilità di dare una prova di talento (indiscusso, spero anche per voi) insuperabile nell'interpretazione di una donna al 'crepuscolo' (che ancora deve 'coprire il cielo nella sua interezza' - rinforzo io) della sua giovane età, ospite di una casa di cura/lavoro, per donne con problemi mentali che le hanno portate a graffiarsi profondamente con complicazioni che rendono molto tortuosa e affaticante ('facciate' dolorose contro i limiti della società, e insinuanti e conseguenti se non si è 'nessuno', iter giuridicco-burocratici difficilmente controvertibili - direi in-controvertibili - se non si è supportati ad alto livello e costo economico) il vivere-sopravvivere, nel mondo 'condiviso' e governato dai codici di procedura legale e da quello che ne desumono i giudici. Lei è, nel film, una donna ricca di famiglia con supposto status di nobile, più o meno importante e riconosciuta, probabilmente interdetta per uso improprio del denaro (patrimonio), della reputazione della famiglia e, anche, della sua/altrui incolumità fisica, attraverso sperperi di soldi e amore nei modi-luoghi-momenti-persone sbagliate; che affronta tutti i giorni lunghissime scalinate verso il sopraelevato universo dell'esagerazione euforica, prima, e giù, giù nel mondo della difesa del proprio status espresso attraverso forti scenate di collera, rifiuto e offesa di chi, in quei momenti la circonda e spaventa. Dopo una prima presentazione di Beatrice/ValeriaTedeschi, capace di sostituirsi, per esempio, alle figure mediche istituzionali per fugaci attimi, 'con fisique du role', conoscenza della terminologia professionale, del nome degli psicofarmaci, instancabile dispensatrice di ordini e consigli, insomma: degna dell'Alberto Sordi e dei suoi personaggi invadenti, istrionici, improvvisatori, immensi, che ci ha regalato in molte sue interpretazioni, entra in scena l'altra protagonista: Micaela Ramazzotti/Donatella, che scende da un'ambulanza, a far parte della, a prima vista, dorata comunità di cui dicevamo più sopra. Io non sono un tifoso della Ramazzotti (alla quale riconosco l'impegno ma, anche, la mancanza del dono dell'intensità), donna nella realtà bellissima, che, in questo caso, definisco tropppo carica di segni e segnali del disagio e dell'indigenza, messi ad hoc dalla regia (tanto per trovare un colpevole), proprio, dico io, a sostegno di una figura umana difficile da sostenere e 'tenere in vita' per un intero film solo con il talento. Comunque: si presenta magra da far paura, costellata di tatuaggi, spettinata, 'stracciata', pesantemente ferita ad una gamba (tutore - stampelle, mancava il braccialetto elettronico ma, forse, sarebbe stato difficile da gestire per lo svolgimento della trama), con una espressione del viso segnata profondamente dal mal di essere e ferma sulla comunicazione della tristezza. Beatrice, ovviamente, inizia a cucire un rapporto e si trova di fronte, non che questo le faccia paura, anzi, una donna più giovane e dai modi bruschi anche se mai urlati, che la respinge inizialmente. Nascerà un'amicizia, a prima vista impossibile, aiutata di sicuro dalla svolta nella trama: che consiste nella messa in atto, anche se per metà casuale, riuscita, di un allontanamento-fugadalla struttura con l'aiuto di un autobus di linea di passaggio e fermata poco distante che le allontana abbastanza da mettere in atto un rocambolesco inizio di quello che sarà il centro del film: la ricerca di della riconquista di quel senso di proprietà e autonomia del proprio destino, delle proprie decisioni, della direzione che la vita personale segue per scelta e scelte imposte solo da se stessi, che la condizione (condanna - giudizio medico - storia personale) di interdetti, non-autosufficienti, incapaci di intendere e volere, espropriati dei propri diritti, malati, porta a vivere ed essere trattati in un modo che la persona (vittima, diciamo) vive come causa della propria infelicità: <<se potessi decidere io, allora sì che le cose andrebbero diversamente>>. Ne nasce un breve rocambolesco viaggio alla ricerca degli affetti (Donatella ha dovuto rinunciare ad un figlio per 'inadeguatezza' dopo un tentato omicidio-suicidio) e della felicità (Beatrice) - <<e dove si trova?>> - chiede stralunata Donatella mentre guida la macchina rubata ad un malintenzionato che già, incontrandole, aveva un suo progetto porno in mente. Ne succedono di tutti i colori, gli occhi del sottoscrittono ridono e si inumidiscono in alternanza: Donatella incontra (casualmente?) il figlioletto e gli parla, rimane vittima di un leggero incidente che sbatte su di lei, spaesata in mezzo alla strada, cadono, si assembra la gente e lei sparisce, Beatrice, dal canto suo, fa il giro di marito e parenti, seminando il panico con la sola presenza, ruba, adopera i privilegi della sua cerchia, riposa, e il viaggio, ad un certo punto finisce: finisce con, dico io, l'ammissione interiore di non farcela, di essere malate (se la malattia mentale esiste), la necessità di tornare a Villa Biondi, la loro residenza temporanea. Io, in qualche modo, faccio parte di quel mondo: sono entrato dalla porta del SERT di zona (T=tossicodipendenze, alcol nel mio caso) ora SERD (D=dipendenze: in senso più lato), ho avuto/subito l'abbraccio/morsa dell'istituzione medico-legale, ho conosciuto la comunità (stavo scrivendo macchinalmente comodità), le cliniche, gli psichiatri, gli psicologi e quella sensazione di cui scrivevo prima: il frutto del pensiero, da parte di chi tatta con te, di avere a che fare con una persona che ha delle difficoltà, è diverso, ha alte probabilità di affrontare le cosedella vita con risposte sbagliate. Allora c'è tutto un catalogo di espressioi verbali, comportamentali, facciali, anche involontarie nella maggioranza dei casi che ti/mi ha reso difficile interpretare chi ho di fronte e ri-costruire una propria identità che tenga conto dei problemi, del passato, ma sia anche capace di gettare fondamenta libere. La felicità che sentono mancare loro, manca davvero ma è frutto anche nostro. Le difficoltà esistono, si possono superare anche chiedendo aiuto. Finisco in fretta perchè ho paura di non avere più spazio: VIVA LA PAZZA GIOIA.
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