Regia di Paolo Virzì vedi scheda film
Per qualcuno la vita è una canzone di Gino Paoli, che parte dolce e lentamente ti strugge, e il giro di jazz racconta la malinconica leggerezza del vivere come una ninna nanna per allontanare gli incubi del sonno. La pazza gioia ha i contorni del sogno e tuttavia dentro questa ospitale cornice dalle modanature morbide s’agita l’inquietudine senza tempo di anime fuori dal mondo, i colori acidi di un’angoscia a cui non basta la spiegazione di una perizia psichiatrica (da citare subito i responsabili della confezione a dir poco significante: Vladan Radovic alla fotografia, Catia Dottori ai costumi, Tonino Zera alle scenografie, Cecilia Zanuso al montaggio). È il racconto di una fuga: in avanti perché rincorre la felicità, che può trovarsi nello champagne da versare nei bicchieri di cristallo o nel bagno catartico di una famiglia mancata, l’utopia indispensabile per donare senso all’esistenza; ma anche all’indietro perché c’è bisogno di tornare al punto di partenza, scavare nel passato, rivangare la memoria.
È la fuga di due donne che si trovano per caso, entrambe alla strenua ricerca di qualcosa che non possono avere più, l’una costantemente in bilico tra gloriosi ricordi del jet set e masochismo sentimentale alla Bovary (fenomenale Valeria Bruni Tedeschi, berlusconiana con parasole anacronistico e Gianni Letta in rubrica) e l’altra figlia del popolo e figlia di nessuno, rinnegata e reietta, abbandonata e disordinata (un altro bellissimo tassello del percorso agrodolce e combattivo di Micaela Ramazzotti).
Sono donne senza padri, assenti (Marco Messeri) o non integrati, e con madri che non vogliono più esprimere il materno se non per compassione (Anna Galiena) o per disprezzo (Marisa Borini che dà continuamente della “deficiente” alla figlia Bruni Tedeschi): sono donne sole, accolte in una comunità terapeutica perché socialmente pericolose e bisognose di cure, annientate dal dolore e tuttavia con un’improvvisa e pazza voglia di divertirsi – che viene da “divertere”, divergere, volgere altrove, cambiare strada, e a suo modo questo film è un road movie, una breve vacanza, un momento di follia, un sorpasso.
Perché La pazza gioia funziona così meravigliosamente bene? Perché restiamo coinvolti nonostante qualche intoppo e qualche lungaggine (perché spiegare ciò che le suggestioni degli sguardi lasciano ben intendere)? Perché Paolo Virzì è un regista generoso, empatico senza essere buonista, che ama i suoi personaggi a prescindere dal giudizio morale, che ha a cuore la regola aurea del narrare: “voglio vedere come va a finire”. Talmente bravo da affidare la sceneggiatura alla fraterna collega Francesca Archibugi, magistrale nell’entrare tra le pieghe del malessere femminile, ed è uno dei lavori più belli della parca regista peraltro, come Virzì, nata sotto l’egida del maestro Furio Scarpelli.
In fondo La pazza gioia è anche quel che resta, oggi, della cosiddetta commedia all’italiana, ne è la sua unica, disperata, tenera versione contemporanea: la tragedia in forma di commedia, il costume per interpretare la società, il personaggio per rivelare l’uomo e la nostalgia di qualcosa che non c’è mai stato se non nelle intenzioni di un buffo romanticismo, la gentilezza con cui approcciarsi a chi sta combattendo una battaglia a noi sconosciuta, impenetrabile come il mondo di chi sa di avere qualche mancanza ma che comunque “i pazzi siete voi”.
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