Regia di Paolo Virzì vedi scheda film
Senza fine.
Interminabile - certo non come i 92 minuti di applausi a Cannes -, la furbissima incursione di Virzì nel mattatoio-pazzatoio del sempre fertile universo-Donna. Opera "femmina" con le stimmate dell'autorialità radical chic, La pazza gioia sciorina il caro noto campionario di molta commedia provinciale italiana fatto di isterismi, urla, pianti, scene finte scene madri e scene figlie (di uno sguardo privo di ambiguità, di una visione programmaticamente "emozionale", non esente dal ricattino della lacrimuccia), anelando - e trovando - sempre l'incondizionata adesione a tesi e personaggi.
Di fatto, una rappresentazione manichea (emblematiche le figure, soprattutto maschili, di contorno; esemplari le suddivisioni all'interno dei responsabili della comunità); anche nel concepire e sviluppare le dinamiche del caso che scaturiscono da incontro e complicità della "strana coppia". Cose mai viste, perdinci, nell'evoluzione dei rapporti tra le due componenti, così come nell'accumulo di situazioni déjà-vu (ma pure la fuga dal ristorante per non pagare la cena, suvvia!); e d'altronde la sceneggiatura - servita da una mdp clinicamente cinica, o cinicamente clinica - è così concentrata nell'inseguire ed esibire i corpi/trofei delle due povere fragili donne che tanto tanto devono appassiona' (incarnate da un'esagitata, fastidiosa Valeria Bruni Tedeschi e da Micaela Ramazzotti in modalità "recitazione meccanica"), che vorrebbe sia che si sorvolasse bellamente su lacune e passaggi impensabili (le circostanze delle evasioni, il comportamento dei genitori adottivi) sia richiedere l'acclamazione pubblica per le fasi di "alleggerimento".
Chissà che pazza gioia infilare all'altoborghese bipolare ma con l'animo buono quei commentini razzistoidi destrorsi (eh, «le toghe rosse», le «sentenze a orologeria», e il caro «Presidente» ... ha pure la foto con B.!), ma che novità giocare alle Thelma & Louise alla guida di una cabriolet rubata da un set cinematografico (e occhio alle frecciatine "meta": dannato d'un Virzì, come difende la sua Nicoletta Braschi!), ma che sollazzo (e utilità) la sortita dalla "maga" che predice detti popolari ...
Ad un certo punto tutto diventa estenuante: la superfluità della trama, il parossismo dell'isteria (esagerata, molesta, imperdonabile la sfuriata di Bruni Tedeschi fuori dalla discoteca), la dilatazione dei tempi, gli "approfondimenti psicologici" (una è depressa con tragedia alle spalle, l'altra è «matta davero» nonché stronza).
Il cuore dell'opera arriva alla fine - ed è dopotutto la cosa migliore -, in seguito ad una serie di eventi poco credibili - per quello che importa - e sempre sbattendo sullo schermo tutto il mostrabile e lo spiegabile: il racconto (oibò, lucidissimo!) del misfatto - condito di flashback illustrativo e simbolico scambio di sguardi acquatico - chiarisce e fa entrare nel "mood" giusto, un primo approccio illude, un insperato ricongiungimento conforta (e commuove). Si ripete la scena sott'acqua, ma questa volta è bella e buona.
Chiusura. Catarsi. Menomale che ci sei te. Amen. Torna a casa Lassie.
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