Regia di Kenneth Lonergan vedi scheda film
Diligente sul lavoro, Lee, tuttofare e custode di condomini, ha però una riserva di pazienza limitata che lo porta a rispondere a tono agli insulti, a provocare risse al bar per futili motivi. Il personaggio di Casey Affleck avanza a fatica nei giorni di una vita ferma in un simbolico inverno quando riceve la notizia della morte del fratello. Costretto a lasciare il torpore di una routine sottopagata con cui volutamente si stordisce e a tornare nella cittadina costiera da cui proviene, Lee viene messo a confronto con le responsabilità dell’organizzazione del funerale e, soprattutto, la scoperta che il fratello lo aveva fatto tutore dell’unico figlio, un adolescente con la madre alcolizzata e in fuga, apparentemente molto più interessato al sesso e alla vita liceale che a elaborare il lutto paterno.
Il film di Kenneth Lonegarn sceglie la via del crudo naturalismo nella recitazione, riprese a macchina quasi sempre fissa, con la profondità di campo a inserire il contesto del luogo, a imprigionare i personaggi in un tempo e in uno spazio definiti, determinati da una sorta di Neorealismo americano di ambientazione quasi proletaria. Le scene si dilatano sino a contenere l’imbarazzo e il silenzio, proseguono sino al loro esaurimento e la frontalità della macchina da presa impone un punto di vista laconico che non spezzetta un’emozione in svariati stacchi di montaggio. Lo spettatore è coinvolto senza il ricatto dell’adesione forzata, è costretto a guardare cosa succede per poi capirne appieno il perché. La narrazione, infatti, si prende la libertà di tornare indietro per ridefinire le premesse del presente e, a poco a poco, in lunghi flash-back, emerge l’altro passato di Lee, si chiariscono le ragioni del suo protratto dolore, l’ostilità dell’ambiente, la difficoltà dei rapporti. Ma le dinamiche di messinscena non cambiano, muta solo la percezione negli occhi di chi guarda con l’aggiunta di nuovi tasselli informativi, frammenti di vita che chiariscono ma non concedono la pienezza del resoconto dettagliato perché il film rimane scarno e disadorno, attento all’essenziale, anche se a volte la musica imprime una certa enfasi ad alcune scene più drammatiche.
Manchester è il ritratto di un uomo spezzato e spento, incapace di tornare a vivere o a sorridere, di cercare un sentimento per paura di rovinarlo; Lee si agita irascibile e sommessamente furioso, con la rabbia repressa di un dolore esacerbato e incurabile che sbotta nella violenza che è differito autolesionismo. E il regista non fa sconti né al personaggio né allo spettatore, lasciando solo intravedere il miraggio di una normalità impossibile, nel tornare a fare il padre e l’uomo di casa, e rimettersi nei panni di una vita abbandonata che il fratello, con le sue ultime volontà, sapendosi condannato, gli ha voluto regalare, fornendogli abitazione, soldi e figlio già confezionati.
Ma solo il vuoto abita Lee, il rimorso e il rancore verso di sé, l’impossibilità di ricucire gli affetti e le ferite, l’incapacità di vedere le giornate come passaggi verso il futuro e non soltanto un eterno e imperturbabile, solitario e grigio vizioso circolo di indefiniti oggi. La sua espiazione, le cui ragioni si manifestano lentamente, non può aver fine, le sue riserve di coraggio non saranno mai tali da riportarlo a lenirsi nella normalità o nel tornare al centro di una vita della quale si vuole solo ai margini e mai attore. Dalla costa si vede solo il mare, agitato e mobile, con le sue promesse di cibo e di lavoro, di cooperazione e di forza, ma Lee ne distingue solo il grigiore e minaccia. L’indefinibilità dell’acqua, nella sua soffocante vastità, si può navigare ma non sottomettere, si può temporaneamente gestire ben sapendo di rimanerne in sua completa balia, in attesa di un evento improvviso e spesso irreparabile. Eppure, al termine del percorso il suo ennesimo e forse definitivo fallimento sarà quasi sereno, perché inevitabile ma con alcune minime e inedite variazioni, che mai comunque potranno nemmeno sfiorare una accezione di speranza.
Del passato di Lee si saprà molto, anche se non tutto, gli altri caratteri andranno definendosi con l’affastellarsi delle scene mnemoniche ma il presente striderà sempre con l’ipotesi e la fantasia di un suo diverso andamento. Il film non è il racconto di una guarigione o di una catarsi, non vuole avanzare secondo i consueti canoni del racconto di formazione o di trasformazione, sia per inettitudine che per precisa volontà del protagonista. Manchester By The Sea è la cronaca di un breve periodo in cui qualcosa sembra definirsi o spezzarsi, prendere corpo o svanire. Con un senso di sadico umorismo, freddo ma non cinico, un’ironia amara che scava il sorriso nel melodramma soffocante del dolore, Lonegarn si premura di scrivere con attenzione e girare con semplicità, lasciando vuoti gli spazi inessenziali di una narrazione non totalizzante, fedele a scelte estetiche precise senza essere radicali né stranianti e con un’imperterrita attenzione ai personaggi e al suo protagonista, che non condanna né vuole che sia giudicato. Perché il suo dolore gli è già sufficiente senza che al peso dello sguardo degli altri si aggiunga anche quello dello spettatore.
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