Regia di Kenneth Lonergan vedi scheda film
Ca(tatonic)sey Affleck è l'attore giusto.
Ne serviva uno che covasse inespressivamente la montagna di dolore accumulato, che lasciasse trasparire - ma solo dal film attorno a lui - il tarlo aggrovigliato dentro.
E probabilmente trattasi di oculata scelta registica. Anche se io ci avrei visto quel Matt Damon previsto in origine, o addirittura Ryan Gosling, altro che tiptapteggiare in Trallaland!...
Ma si rischiava una trasparenza del dolore forse eccessivamente marcata.
Non è quello cui mira il film, e questo sviare è uno dei suoi meriti maggiori. La diluizione della sofferenza custodita, il tirarla fuori a flashback improvvisi, come fitte lancinanti, che lentamente dissipano quella patina di cortocircuito con la quale si apre la pellicola, e ci accompagna nella ripetizione dei gesti, dallo spalare la neve, al riempire cassonetti.
Un agire meccanico soffocato dal martirio interno.
Un'apatia che Affleck denota appieno, forse fin troppo.
La morte del fratello lo riporta da Boston alla sua originaria comunità di Manchester by the Sea.
Ed entrambi avrebbero fatto per sempre a meno uno dell'altra.
Ma c'è un nipote cui fare da tutore. E c'è da fare i conti col passato, affrontare fantasmi, decidere del futuro, cacciare gli incubi, ricostruire pure un sorriso magari. Elaborare lutti troppo stretti dentro una cornice, unico soprammobile concesso,
Comprendo il volerci far calare nel ritmo blando di una vita che non avrebbe più nulla da chiedere, dove l'unico elemento vitale ed estraneo al ciclo involutivo e degradato che circonda tutti è il nipote Pat, che suona, gioca e c'ha pure due fidanzate (trovata debole questa, visto che vivendo in un mini paesino ti tanerebbero dopo venti minuti..-), ed è ormai l'unico legame che può riportare lo zio, Lee, ad un passato se non proprio sereno, almeno di quieta accettazione.
Questo voluto ralenty emotivo però, che da un lato ha la capacità di farci immedesimare, somatizzando in tempo reale la palpabile aria avvilita, senza mai far ricorso al melodramma puro, si imbarca, suo malgrado, in diverse debolezze, come l'insistente e abusato Albinoni della scena madre, le lungaggini in ospedale, nel noioso traffico degli spostamenti, negli imbarazzati incontri con la ex moglie, nei reiterati “no, grazie”.
Alterna scene sublimi, come la lite del nipote col congelatore o il sogno delle figlie mentre il sugo brucia, a siparietti inflazionati come i vari “destri” irosi a cose e persone o quella mesta indolenza che non lo molla un attimo.
Casey viene affrontato più che affrontare. E' candidato ad un Oscar che probabilmente raggiungerà (e lo scrivo a 24 ore dalla cerimonia), ma lo avrei candidato come Miglior Sottrazione di emotività. Un premio all'anaffettività.
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