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Manchester by the Sea

Regia di Kenneth Lonergan vedi scheda film

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Questo testo contiene anticipazioni sulla trama.

La recensione su Manchester by the Sea

di laulilla
8 stelle

Film, a mio avviso, molto bello, anche se molto discusso, candidato a un certo numero di Oscar, che mi auguro ottenga almeno in parte, a riconoscimento della sua qualità non certo comune. La sua visione mi pare assolutamente da consigliare.

Lee (Casey Affleck) era vissuto da sempre con la sua famiglia d’origine (i Chandler) a Manchester by the Sea, cittadina del New England nella quale insieme alla moglie Randi (la bravissima Michelle Williams) aveva creato una famiglia tutta sua, con tre bei bambini teneramente amati. Con Randi, purtroppo, qualcosa non aveva funzionato: era diventata una donna apatica, scontenta e rancorosa: così almeno la vediamo nelle poche, ma memorabili apparizioni del film. Che cosa avesse incrinato il loro matrimonio non ci viene detto: sappiamo, però che, dopo l’incendio immane che aveva portato via, insieme al  cottage in cui abitavano, il senso stesso del loro ormai fragilissimo rapporto, Randi sarebbe rimasta a Manchester, mentre Lee se ne sarebbe andato a Boston, tentando di ricominciare a vivere, schiacciato dal peso dell’accaduto, dal senso di colpa di cui non riusciva a liberarsi, originato dai rimorsi per una presunta leggerezza che acuiva un dolore senza scampo.

A Boston, dove si era sistemato nel piccolo monolocale semi-interrato di uno stabile periferico, aveva trovato un lavoro: un amministratore di condomìni gli aveva infatti affidato la manutenzione e la riparazione degli impianti idraulici ed elettrici degli anonimi palazzoni di cui si occupava. Non lo preoccupava l’esiguità della paga, appena sufficiente a sopravvivere, poiché la disperazione sembrava averlo reso di ghiaccio e indifferente al proprio futuro. Suo fratello Joe (Kyle Chandler) gli aveva però acquistato un tavolo e una poltrona-letto che a Patrick (Lucas Hedges), suo figlio, avrebbe potuto far comodo se, terminato il liceo, avesse proseguito i suoi studi a Boston.
Gli affettuosi rapporti di sempre fra Lee e Patrick si sarebbero complicati, di lì a poco, per la morte improvvisa di Joe: ora Lee avrebbe dovuto occuparsi di quel nipote sedicenne fragile, rimasto solo al mondo (la madre aveva da tempo fatto perdere le proprie tracce) e perciò bisognoso di essere aiutato a crescere da un familiare attento e partecipe dei suoi problemi. Il testamento di Joe non lasciava dubbi in proposito: affidava quel figlio all’amato fratello, che ne sarebbe diventato il tutore, amministrando, nel suo interesse, i suoi risparmi e le sue proprietà.

 

La storia della solitudine di Lee, inebetito e raggelato dal cumulo delle proprie sciagure, rassegnato a scontarle fino in fondo soprattutto per volontà di espiazione, avrebbe potuto a questo punto diventare un drammone lacrimoso e insopportabile.
Kennet Lonergan, quasi sconosciuto regista newyorkese*, si rivela invece davvero all’altezza della difficoltà, poiché riesce a mantenere il racconto in un eccezionale equilibrio narrativo, conferendogli un carattere dolorosamente malinconico, in armonia coi magnifici e lattiginosi colori pastello del paesaggio nordico splendidamente fotografato.
Il film ci informa con lenta pacatezza dei fatti che avevano trasformato in un inferno tormentoso la vita di Lee Chandler, adottando un procedimento non diacronico del racconto, in cui, con grande naturalezza, si inseriscono, in uno scambio continuo fra presente e passato, ampi squarci del suo vissuto, flashback che scavano a fondo nei segreti della sua coscienza e del suo cuore. Spesso il passato è evocato mentre risuonano, rimanendo sullo sfondo, brani famosi di musica classica che accompagnano emotivamente gli spettatori a sopportare le situazioni più dolorose e difficili, senza sottolineare con effetti fragorosi la drammaticità che è tutta e soltanto nelle cose raccontate con austero pudore. Del tutto funzionale a questo equilibrio, mai tentato da toni enfatici, è l’uso costante di un delicato registro ironico, indulgente contrappeso alla narrazione del dolore. È Patrick, deuteragonista del film, colui che, con la sua presenza vitale e con l’affermazione accorata e anche buffa delle proprie necessità di adolescente che si affaccia alla vita adulta, riporta (forse) un po’ di luce tranquilla nel mondo cupo e disperato dello zio, costringendolo a uscire dal proprio egocentrismo e da quel “lago d’indifferenza” che sembra essere diventato il suo cuore, per confrontarsi con nuovi e  imprevisti problemi, quelli legati alle sue velleità di ragazzo convinto di saper bastare a se stesso, e di poter a lungo celare il dolore dietro la maschera dell’allegria spensierata con gli amici, i conoscenti e le ragazze per le quali comincia a provare curiosità e attrazione.
Di eccezionale rilievo, a questo proposito, l’interpretazione del giovane Lucas Hedges, che riveste perfettamente i panni dell’adolescente che unisce ai turbamenti e ai mutamenti di umore dell’età le contraddizioni di una condizione dolorosa inaccettabile e davvero incomprensibile.
Di uguale efficacia è la prova d’attore di Casey Affleck, che maschera nel gelo di un comportamento duro e talvolta aggressivo, il proprio disperato e vano bisogno di dimenticare, pur nella coscienza di dovere a Patrick la comprensione e l’attenzione che richiede la sua fragilità, emersa drammaticamente in una scena indimenticabile.


Film, a mio avviso, molto bello, anche se molto discusso, candidato a un certo numero di Oscar, che mi auguro ottenga almeno in parte, a riconoscimento della sua qualità non certo comune.  La sua visione mi pare assolutamente da consigliare.

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*Ha avuto, in realtà, come regista, un’attività cinematografica piuttosto ridotta: tre soli film in sedici anni, di cui qualcuno potrebbe ricordare il primo: Conta su di me (2000). Più noto come co-sceneggiatore di due film di successo: Terapia e pallottole (1999) e  Gangs of New York di  Martin Scorsese (2002). Assai conosciuto, invece, come scrittore teatrale.

 

 

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