Regia di Kenneth Lonergan vedi scheda film
Lee Chandler è il custode tuttofare di alcune palazzine a Boston e nel suo sguardo assente si percepisce l’incapacità di ipotizzare un futuro. Quando riceve la notizia della morte del fratello Joe, è costretto a tornare a Manchester-by-the-Sea, la cittadina del Massachusetts da cui se n’è andato anni prima. Aperto il testamento del defunto, scopre di esser stato scelto come tutore legale del sedicenne Pat. Zio e nipote, legati nel presente da una complicata elaborazione del lutto, appaiono insieme sin dalla prima scena del film, in campo lungo, sulla barca Claudia Marie, intenti a pescare e scherzare sulla fame degli squali. Un attimo di serenità familiare tutta maschile, di cui ci si ricorderà verso il finale, il primo flashback che si dipana nella trama dei ricordi tessuta dal protagonista in un montaggio alternato che tiene conto della sua istintiva tensione all’autodistruzione. E questo perché Manchester by the Sea, nella cornice di un’inesorabile malinconia che solo le località di mare in inverno sanno esprimere, è un film devastante che s’accorda al cuore devastato di Lee (Casey Affleck, seconda scelta al posto di Matt Damon, è monumentale).
Con glaciale intimismo, il parco Kenneth Lonergan (tre film in sedici anni) non sceglie la via del melodramma esplicito ma ne addomestica il furore nei ranghi di un’austera tragedia della middle class. A suo modo allarga il discorso dei drammi quotidiani degli anni cinquanta (alla Paddy Chayefsky, ma con meno consolazione) e si riallaccia a quelli della gente comune in voga tra i settanta e gli ottanta, e in realtà s’inserisce in una lunga tradizione americana in cui il dolore è il banco di prova per una maturazione. Non a caso c’è un giovane nel pieno della sua formazione adolescenziale, quasi incredibile per come riesca ad aggirare l’ostacolo del lutto fino all’epifanico pianto causato da un dolore fisico (lodi allo strabiliante Lucas Hedges). Letto in parallelo con lo zio, un uomo interrotto e staccato dalla vita, appare chiaro quanto l’attesa che si verifichi la stessa dinamica (anima distrutta/corpo inferto/esplosione del lutto) sia fondamentale per comprendere se abbia davvero la possibilità di un futuro. Film sul tempo che (non) passa, Manchester by the Sea è anche una straziante trenodia alla famiglia americana: sia Lee che Joe sono divorziati; la moglie del primo s’è (forse) rifatta una vita con un altro, quella del secondo è (forse) scomparsa nel nulla del suo decadente alcolismo.
Ma pure un canto di morte, che riecheggia nella corale e negli adagi della colonna musicale di Lesley Barber, in cui più del senso di una fine imminente aleggia la consapevolezza di un’ineluttabilità, dalla malattia senza scampo di Joe al tentato suicidio successivo alla tragedia massima fino alle lapidi che in poche asettiche righe restituiscono il non detto di una vita. Però, e probabilmente più d’ogni altra cosa, è soprattutto una catena di momenti in grado di raccontare una lacerazione insanabile, l’impotenza del dolore, l’impossibilità di opporsi al corso delle cose. Accade che la ferita del film sanguini quando l’avvocato smanetta col cellulare fregandosene dei clienti, quando il lettino col carrello non riesce ad entrare sull’ambulanza, quando Lee sistema le cornici in un maglione e quando Pat le vede nella stanza dello zio. Ma forse tutto il film sta nell’indimenticabile e breve incontro casuale tra Lee e l’ex moglie Randy (in scena per nemmeno dieci minuti in tutto, Michelle Williams è impressionante).
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