Regia di Michael Grandage vedi scheda film
Giù il cappello!
Parlando sinceramente, nonostante (ma forse) oggi come oggi sia più o meno possibile interrogare la rete su ogni come, su ogni perché, se sia vero davvero vero che l’editore Max Perkins, talent scout dell’editoria che cavò da sotterra gente del tipo di un certo Hemingway, o Fitzgerald (o di Wolfe, naturalmente) , non si togliesse mai il cappello nemmeno sotto la doccia (anzi, a proposito, perché non lo si vede mai sotto la doccia??), io sono convinto che Michael Grandage lo abbia fatto apposta, che sia uno di quelli che parte dalla fine per dire quel che voleva dire prima, Il che, a meno di essere davvero Geni, è difficilmente una buona cosa.
Michael Grandage non è un genio di regista (la rete lo confermerà prima o poi, di questo son certo), e il cappello che il povero, innocente Colin Firth si toglie di capo solo e soltanto nell’ultima lacrimosa scena di letterario commiato dalla sua creatura/figlio Jude Law pare essere più che altro un escamotage buono per la messa a punto una locandina che si voglia assestare (nel poco tempo che avrà a disposizione per restare visibile) nelle labili memorie di un pubblico superficiale e distratto, per quanto dotato di buoni sentimenti e/o di lodevoli aspirazioni.
E speriamo, appunto, che di questo film resti solo memoria della sua grigia locandina. Anche se Law è a mio avviso bravissimo nelle esagerazioni schizoidi , se Firth non fa una piega nel dosarsi tra professionalità paterna ed equilibrato sentimentalismo ispirato, se quattro/cinque brave mogli e figlie femmine vi paion poche (stendere velo pietoso sulla femmina di Wolfe, in arte…. ma che arte e arte, non scherziamo…. Nicole Kidman!), anche se la polvere dei monumentali manoscritti e lo zelo delle verginee dattilografe ben inquadrate di sghimbescio e tutto il resto (le citazioni, le strizzate d’occhio, i rimandi agli scrittori-che-non-son-più, tutto comunque manda un certo profumo di letteratura e (esageriamo pure) di poesia che comunque fa bene all’anima, ”Genius” è un film povero, mediocre, anche un po’ ladro. Ruba al tempo che serve a scrivere cinquemila pagine di roba, lo sforzo che serve per sintetizzarle in forse cinquecento, ruba ad una memoria che non gli appartiene, quella letteraria, i tormenti di uno (due) uomini che al cinema ci finiranno solo, ahimè, per via del cappello di Colin Firth appoggiato su una sedia ad occupare il posto, e tenere la fila per un immeritato incasso ai botteghini.
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