La recensione su Il mostro di Cleveland

Alex Kalymnios, giovane regista televisiva britannica, scuola BBC, di evidenti origini greche, non aveva diretto alcunché di troppo significativo prima di questo “Cleveland Abduction”, un tv movie del 2015 scritto da Stephen Tolkin basandosi sul memoir del 2014 di Michelle Knight raccolto da Michelle Burford, “Finding Me: a Decade of Darkness, a Life Reclaimed” e più in generale sui fatti di cronaca nera [wiki ITA & ENG] che avvennero a Cleveland tra il 2002 e il 2013 [il rapimento, lo stupro continuato e la resa in schiavitù da parte di Ariel Castro (1960) nei confronti di 3 giovani donne: Michelle Knight (1981, rapita nel 2002 e salvata 11 anni dopo), Amanda Berry (1986, rapita nel 2003 e salvata 10 anni dopo) - che nel 2006 partorì una bambina nata da quei violenti rapporti sessuali forzati che sino alla sua liberazione condusse una “normale” vita da reclusa in quella casa (“Room” di Lenny Abrahamson ed Emma Donoghue) - e Gina DeJesus (1990, rapita nel 2004 e salvata 9 anni dopo): la “deriva” che caratterizza l’età sempre più giovane delle vittime è da sé evidente] e - fatta eccezione per la recente mini-serie “Three Families” - non ne dirigerà dopo, e pure il film in questione non è che sia ‘sta gran cosa, eh, più piatto e pedante (senza per questo arrivare alle vette di schifo/disgusto delle varie non-fiction berluscon-ammeregane di real/true crime) che interessante e lucido, però c’è...

...Taryn Manning (la Tiffany "Pennsatucky" Doggett di “Orange Is the New Black”), perciò una possibilità gliela si da, e dal PdV della prestazione attoriale l’avervi assistito non è stato tempo perso: bravissima lei e agghiacciante lui (Raymond Cruz, il Tuco Salamanca di “Breaking Bad “ e “Better Call Saul”), mentre il resto del cast è completato da Katie Sarife e Samantha Droke, più due minuscoli ruoli per Pam Grier (Coffy, Foxy Brown, Escape from L.A., Jackie Brown, Holy Smoke!, the L Word) e Joe Morton (attore feticcio di John Sayles: the Brother from Another Planet, City of Hope, Lone Star).

Fotografia di Richard Wong, montaggio di Henk Van Eeghen e musiche di Tony Morales (con una piccola performance della stessa Taryn Manning sui titoli di coda, a riprendere in “bella copia” quel che s’era già sentito, solo accennato “live”, con alla chitarra lo stesso "Ariel Castro", durante il corso del film: e infatti per un momento ci s’immagina che anche per quell'occasione sia lui a strimpellare, con un effetto straniante/respingente assurdo). Prodotto da Sony e distribuito da LifeTime.
 

In soldoni, “Cleveland Abduction”, che ribalta in un suo assunto (“Forse sono più forte ora di quanto lo sarei se non fossi salita su quell’auto…”) il concetto alla base di un altro film profondamente cattolico…

«You took 11 years of my life away. I spent 11 years in hell, now your hell is just beginning, I will overcome all this that has happened, but you will face hell for eternity. I will live on, you will die a little very day as you think of the 11 years of atrocities that you inflicted on us. I can forgive you, but I will never forget.»

«Hai preso undici anni della mia vita, ho passato undici anni all'inferno, ora il tuo inferno è appena iniziato. Io supererò tutto quello che è successo, ma tu affronterai l'inferno per l'eternità. Morirai un po’ ogni giorno pensando agli undici anni di atrocità che hai inflitto a noi. Posso perdonarti, ma non dimenticherò mai.»

…qual è il “Mystic River” di Eastwood, Helgeland ed in parte Lehane, lascia - per propria incapacità di elaborazione ulteriore - la realtà così come l’ha trovata: inesplicabile (e no, in questo caso non è un merito).

3 giorni d'imprinting, 9 mesi di gravidanza, poco meno e poco più di un decennio di cattività.

* * ¾ - 5.5