Regia di Rainer Werner Fassbinder vedi scheda film
Pensato e prodotto per la televisione (venne trasmesso nel marzo del 1976 dalla ARD, il primo canale della TV tedesca), Voglio solo che mi amiate - una delle possibili traduzioni del titolo, poiché il film non è mai stato "ufficialmente" presentato in versione italiana: alcuni lo traducono come Voglio solo che mi si ami, mentre altri hanno aggiunto un «voi» nella frase subordinata - è uno dei film più belli ed importanti di Fassbinder, uno di quelli che non dovrebbe mancare in una teorica antologia sul cinema degli anni Settanta, nonostante la sua originaria destinazione.
Contenutisticamente e, in parte, stilisticamente, quest'opera mi ha fatto a più riprese pensare a due film precedenti, I quattrocento colpi di Truffaut e La classe operaia va in paradiso di Petri, dei quali Voglio solo che mi amiate potrebbe costituire una possibile sintesi, se si potesse adottare al cinema il sistema della dialettica marxiana, ovviamente sfrondandola delle pretese di assoluta scientificità e filtrandola con la personalissima sensibilità poetica di Fassbinder. Narrato in flashback, durante l'intervista che una scrittrice fa al protagonista nel parlatorio di una prigione, il film, ispirato ad un fatto di cronaca, porta con sé una delle tematiche più care al regista, nonché elemento importante della denuncia e della lotta rivoluzionaria (artisticamente parlando) che egli conduceva all'interno della società tedesca, ossia l'influenza nefasta dei rapporti economici su quelli sentimentali. Il centro nodale di questo groviglio di rapporti distorti è la famiglia e qui Fassbinder descrive una famiglia, forse statisticamente atipica, ma simbolica ai fini del suo discorso poetico e politico. Perché quella del protagonista è una famiglia formata da due coniugi borghesi, benestanti, il cui figlio, che da ogni punto di vista è irreprensibile (per comportamento e dedizione ai genitori, Peter è il figlio che ogni madre vorrebbe avere), fa il muratore e si direbbe che lo faccia per vocazione. È, infatti un ragazzo intelligente e sensibile, che sente di poter realizzare con le proprie mani qualcosa di utile alla propria famiglia e soprattutto un bene tangibile, attraverso il quale penetrare, per ottenerne l'affetto, nel muro d'indifferenza che i suoi genitori hanno (metaforicamente, nel loro caso) costruito tra loro stessi e lui. Ma, come dice una didascalia finale, quell'affetto, quella riconoscenza, durano lo spazio di due settimane, dopo di che tutto torna come prima.
Peter cerca allora l'affetto costruendo qualcos'altro, cioè una famiglia tutta sua, trovandosi una brava ragazza, che lo sposa volentieri. Ma è proprio l'istituzione matrimoniale e familiare, di cui il giovane è portatore per eredità genetica e culturale, a non funzionare. Sposatisi nella sostanziale indifferenza delle due famiglie d'origine (la festa nuziale è di uno squallore unico), i due giovani iniziano un ménage che avrebbe tutto per funzionare - l'unione è, come si suol dire, "benedetta" quasi subito dall'arrivo di un bel bambino, battezzato con il nome del nonno paterno - se non fosse per la mentalità di Peter che è indirizzata ad un tenore di vita borghese, appreso tra le mura genitoriali, che ancora non si può permettere: rifiutando orgogliosamente di chiedere aiuto al padre, al quale vuole invece dimostrare di essere almeno al suo livello (i due sposini si recano al paesello dove abitano i genitori di lui in taxi da Monaco), ritiene di doversi guadagnare l'affetto della moglie comprandole tutti gli oggetti tipici del benessere borghese, come il televisore, un costoso braccialetto d'oro di lavorazione francese, la macchina per cucire ultimo modello e così via, indebitandosi fino al collo per una miriade di rate mensili, del cui numero non riesce più neanche a ricordarsi. Per di più, Peter ha la convinzione di doversi ogni giorno guadagnare l'affetto della moglie - che lo ama - facendole continuamente degli omaggi floreali: lo vediamo, infatti, molto spesso, impacciato nei movimenti da ingombranti mazzi e vasi di fiori. Con l'obiettivo di mantenere questo insostenibile tenore di vita, Peter (operaio esemplare sul posto di lavoro) comincia a lavorare sempre di più ed a ritmi sempre più frenetici, sobbarcandosi degli straordinari e progettando addirittura di trovarsi un'ulteriore attività in nero. In questo modo, crolla fisicamente e dal punto di vista nervoso, tanto è vero che si compra una pistola, con il progetto inconfessato di fare fuori l'affettuosa nonnetta di Erika (la moglie), allo scopo di rubarle i risparmi.
Il suo destino, però, è un altro. Recatosi a casa dell'anziana donna e non trovandola in casa, si ferma presso l'osteria adiacente e familiarizza con l'oste, una persona apparentemente amichevole, in realtà piena di pregiudizi sociali e razziali (sparla subito di un cliente ebreo, invidiandone la ricchezza), ma soprattutto straordinariamente somigliante al padre di Peter. E qui siamo alla sequenza finale, che secondo me è una delle più geniali mai concepite al cinema, pur nella sua semplicità. Da consumato uomo di teatro, Fassbinder accumula alcuni oggetti e alcuni fatti, e li abbina ad alcune sequenze cui abbiamo assistito (o creduto di assistere) come flashback, durante il colloquio di Peter con la scrittrice. Mentre l'oste sta rassettando alcune sedie in vista della chiusura serale e si sta facendo pagare dagli ultimi clienti, Peter gli chiede di poter fare una telefonata al padre; l'oste gli offre il telefono e si allontana; Peter, con il telefono davanti è incapace di comporre il numero e non chiama nessuno; quando l'oste torna e gli chiede se abbia parlato con il padre, Peter gli risponde ridendo di non riuscire a ricordare il numero, ma che comunque la cosa non era importante, perché voleva soltanto fargli un saluto. In quel mentre entra un giovane, che somiglia vagamente a Peter, e chiede una birra; l'oste risponde di essere in chiusura e di non volergliela dare e, data l'insistenza del ragazzo, lo malmena e lo butta fuori dal locale; Peter, che ha assistito in silenzio alla scena, afferra il telefono e lo sbatte violentemente sulla testa dell'oste, uccidendolo. Quando accorre la moglie dell'uomo, Peter reprime il primo istinto di ammazzare anche lei, prendendosi, come si viene informati, una condanna per omicidio preterintenzionale. Nei flashback della scena cui avevamo assistito in precedenza, eravamo rimasti convinti che Peter avesse ucciso il padre, risparmiando la madre, ma forse è proprio così e il regista ci mostra semplicemente un omicidio a lungo represso e commesso per (o su) interposta persona.
Peter, in carcere, dopo avere ricostruito lucidamente tutta la storia davanti alla scrittrice, dimostra di non avere perso i propri schemi mentali, dicendo alla donna che con il libro che scriverà sulla sua vicenda guadagnerà tanti soldi e poi non riesce a rispondere all'ultima domanda della donna, ovvero se sia contento di essere ancora vivo. Forse lo è, ma perché?
Molto bravo e funzionale al personaggio costruito da Fassbinder; sembra una possibile evoluzione del piccolo Antoine Doinel dei Quattrocento colpi, e dello stesso Truffaut, se non avesse conosciuto il cinema. Peccato non averlo più incontrato in altri film.
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