Regia di Xavier Dolan vedi scheda film
"Di sere nere
che non c'è tempo, non c'è spazio
e mai nessuno capirà
puoi rimanere
perché fa male, male
male da morire
senza te"
Ancora una pièce teatrale a fare da fonte d'ispirazione.
E ancora una volta il risultato è sorprendente.
Ancora una volta struggente.
Xavier Dolan si dimostra assolutamente in grado di gestire con una consapevolezza più consona ad una personalità matura, avanzata negli anni, che ad un giovane, quale è lui, di appena 27 anni, quel colorito ventaglio emozionale squisitamente umano che ha fortemente caratterizzato fino adesso il suo cinema, ardita fusione di classico e moderno, dal sapore antico pur essendo immerso nell’oggi, nei suoi opprimenti conflitti, nelle sue molteplici contraddizioni, nel suo inestricabile mal di vivere.
Con disinvoltura è riuscito a passare dalle emozioni trattenute, tenute nascoste, implose di Tom à la ferme ai furenti, esplosivi, violenti, plateali tumulti del cuore di questo suo ultimo lavoro come del precedente, intensissimo, Mommy.
Il suo cinema è in ogni caso potente e dirompente.
Viscerale, duro.
Assolutamente vitale.
Intimamente doloroso.
Sono (melo)drammi da camera, che si focalizzano prevalentemente sull’osservazione, chirugica, lucida ma compassionevole, e di conseguenza, sulla rappresentazione, mai buonista, mai edificante, delle complesse-complicate-articolate dinamiche relazionali, prevalentemente di natura parentale.
La famiglia come centro del mondo, come luogo da cui nascono, in cui convergono, si consumano e forse muoiono gli eterni universali conflitti tra le anime allo sbando che la compongono.
Quella di è solo la fine del mondo pare fatta da 5 figli unici; il 5° è quello andato via e che ritorna dopo 12 anni di assenza e lontananza emotiva, nonostante la nutrita ‘corrispondenza d’amorosi sensi’ sottoforma di formali cartoline illustrare, fatte recapitare periodicamente al nido materno ma che nulla rivelano dell’universo interiore del mittente.
5 individui incapaci di rapportarsi fra loro (e, magari, anche col resto del mondo, o, con più probabilità, il dominio esclusivo è affidato alle pareti domestiche), di gestire una qualsiasi conversazione senza prevaricarsi e scadere nel mutismo lapidario come nel litigio acceso ed offensivo.
Sembrerebbe, perciò, in linea con il più classico dei racconti, di imbattersi, insieme alla mite pecorella che ha ritrovato la strada di casa, nella classica famiglia proletaria della profonda provincia del mondo, gente gretta, delirante e sciroccata, che si lascia vivere, priv(at)a di un’autentica felicità e di soddisfazioni che evidentemente crede/è finita per convincersi essere esclusivo patrimonio di chi su questa terra è divenuto, per nascita o per merito, un privilegiato.
Come quello, uno di loro, che è andato via e ce l’ha fatta, diventando uno stimato autore teatrale.
Ma la realtà che i fatti paiono attestare inconfutabilmente (un nucleo familiare terribile, da cui scappare se si vuol sopravvivere) si rivela, in progressione, solo mera apparenza, frutto di semplicistiche, affrettate conclusioni di comodo a cui giunge chi, dall’esterno, vi ha lanciato fugacemente uno sguardo per poi distoglierlo con la medesima rapidità.
Scavando in profondità, invece, rovistando fra le pieghe dimenticate di ogni insignificante tragedia familiare, è possibile scorgere una verità differente da quella che i nostri occhi sono indotti inizialmente a cogliere, figlia di un dolore di fondo fortissimo e lacerante che il tempo ed i legami, pesantemente allentati ma giammai interrotti alla radice, hanno alimentato e solo temporaneamente lenito.
Un’insanabile frattura le cui crepe non hanno cessato di propagarsi e di moltiplicarsi, ramificandosi come tenaci ragnatele a imprigionare, soffocando, colui che quel dolore se l’è portato dentro così a lungo da considerarlo a tutti gli effetti una parte sostanziale di sé.
Il ribaltamento della prospettiva iniziale (che avviene senza forzatura alcuna), del quale finiamo per prendere atto, svela le ragioni intrinseche delle reazioni spropositate scatenate dalla venuta del figliuol/fratello prodigo (prodigo del suo “dono” con gli altri, forse solo con se stesso, ma non con la sua famiglia) bollate come folli, aggressive, rancorose, ingestibili, perché follemente devastante è il ritrovarsi.
Questa improvvisa visita alla famiglia, evento più unico che raro, si nutre di fremente attesa, di tensione a fior di pelle, di desiderio di sciogliersi in un pianto liberatorio, in un abbraccio fraterno che inevitabilmente cozzano con la reazione istintiva di chiudersi a riccio in segno di difesa e sfoggiare, per l’occasione, quella corazza di arrabbiato dolore divenuta nel corso degli anni una vera e propria seconda pelle.
Visita che tocca nervi scoperti, che lascia l’amaro in bocca, procurando cocente delusione e uno schiacciante senso di frustrazione nel constatare come il sangue del proprio sangue non è altro che un personaggio marginale relegato sullo sfondo sfocato dell'esistenza piena e sorridente del suo protagonista, magari simile a quei caratteri vaghi presenti negli acclamati lavori teatrali dell’ospite (in)atteso.
“E tornare sui propri passi” forse non è più possibile.
Il tempo è scaduto.
“Scegliere da soli la propria sofferenza” è assolutamente umano, ed è forse la cosa che più ci riesce meglio.
Coerente, il gesto di uscire definitivamente di scena in silenzio, a passo felpato, abbandonarla come quella volta.
Senza essere visti, senza essere accompagnati.
Chiudersi la porta dietro le spalle e finirla così.
Dolan sa perfettamente che quello che filma è la vita. Sempre uguale a se stessa.
Nel passato come nel presente.
Non giudica e non fa distinzioni fra buoni e cattivi, intende, semmai, ristabilire l’ordine nel caos, restituire il giusto nome ai fatti, riabilitare chi da traumi emotivi, da dolori più grandi di se stesso, dall’abbondono (una delle costanti del suo cinema) offre un’immagine di sé (negativa) non proprio rispondente alla sua reale natura.
Non sapremo mai il perché quel figliuol/fratello prodigo è andato via; tanti motivi, come nessuno in particolare.
Ma non importa la causa, fondamentale è l’effetto, le conseguenze di una scelta che ricadono sul suo stesso responsabile e su chi gli si trova accanto.
Il testo originale è reso magnificamente in pellicola dal sensibile talento del giovane Xavier attraverso dialoghi scritti di pancia, a sottolinearne l’autenticità dei forti, contrastanti sentimenti che li animano; mediante abbracci e sguardi silenziosi ma inequivocabilmente eloquenti, opportunamente dilatati da contrastare il normale flusso temporale e renderli percepibili come intensi, profondi, inesauribili, empatici; curando il sonoro così da procurare un efficace effetto di estraniamento dall'opprimente microcosmo familiare; servendosi di un sottile lavoro sulla messa a fuoco, soprattutto per esprimere il ritornare a guardare nitidamente chi e cosa è scivolato per tanto (troppo) tempo nell’oblìo, tramutandosi in un ricordo appannato; rendendo la fotografia funzionale al percorso emotivo dei personaggi.
Il taglio registico adottato, quella camera addosso ai personaggi, sbattuta sui loro volti, si rivela una scelta stilistica indovinata, come a dire che questi figli unici sono arroccati, ognuno, sulle proprie posizioni, paralizzati nel proprio sordo dolore che li rende incapaci di aprirsi senza conflitto alle ragioni, alla visione dell’altro.
Scelta meno appariscente e irruenta di quella adottata in Mommy (il formato della pellicola 1:1 suscettibile di espandersi e restringersi in base ai sussulti emotivi dei personaggi) ma comunque estrema, che denota ancora una volta come il franco-candese Dolan creda nella forza comunicativa del cinema e lo disegni con lo slancio appassionato e sofferto della giovinezza.
Non ci sono commenti.
Ultimi commenti Segui questa conversazione
Commenta