Regia di Xavier Dolan vedi scheda film
Intendiamoci: che un ventisettenne sia giunto al sesto film in sette anni e abbia ricevuto più di un alloro nel più importante festival del mondo (Cannes), riscuotendo un crescente successo di critica e di pubblico e diventando uno dei più ammirati e detestati autori del nuovo millennio, insomma, non può che rincuorare la mia generazione. Xavier Dolan è l’ultimo enfant terrible nell’epoca in cui tutti possono diventare qualcuno (qui ci dovrebbe essere una tirata su youtuber e webstar ma la risparmio volentieri), l’alfiere di talento di una generazione che spesso si culla nell’idea di avere un grande avvenire dietro alle spalle come pure nella presunzione di ignorare quel passato stesso (ma mi fermo qui per carità di patria).
Di talento, Dolan ne ha da vendere. Ne ha addirittura troppo: in lui esplodono la sfrontatezza e la temeraria e benemerita arroganza dell’eccesso calcolato e della meditata dilatazione. Si dilatava, per citare il suo lavoro più famoso, il quadro di Mommy laddove necessitava del respiro della felicità; e si restringeva, quando la storia riplanava nel dolore di un evidente destino. Qui la dilatazione è anzitutto industriale: È sola la fine del mondo è il suo primo film con divi francofoni ma internazionali. Come già Mommy sviluppava i temi di J’ai tué ma mère, anche qui l’universo donaliano s’espande restando ancorato alla sua poetica, fatta di protagonisti smarriti colti nel conflitto interiore con l’istituzione familiare.
La differenza rispetto alla filmografia precedente sta nell’utilizzo di attori esperti con una loro precisa identità: e sebbene sia difficile se non impossibile lamentarsi delle loro impeccabili performance, la prima impressione che serpeggia è che la rinuncia all’autenticità di corpi e volti non corrisponda all’empatia tipica del cinema carnale e viscerale di Dolan. Si pensi anche solo all’attenta adesione emotiva che fondava il pur non eccelso Les amours imaginaires. Il distacco che postula si lega forse anche all’origine teatrale della storia: il ritorno a casa di uno scrittore malato di Aids è un testo che Jean-Luc Lagarce scrisse nel 1990 nel pieno dell’epidemia, stagione in cui artisti contagiati produssero lavori di straziante potenza universale (Camere separate di Pier Vittorio Tondelli, Notti selvagge di Cyril Collard, Blue di Derek Jarman, Tuttomondo di Keith Haring…).
In realtà questa dimensione (storica e sociale ma soprattutto emotiva ed umana) non emerge nel film, che traspone l’azione alla contemporaneità (sottolineando lo status classsico della commedia) e preferisce concentrarsi sulle dinamiche familiari inondando di parole un ambiente domestico spesso claustrofobico quando non decide di uscire per ipotizzare una presunta serenità. Il protagonista, dal canto suo, parla poco, guarda molto, ricorda troppo, aspetta la fine (del mondo) in un mondo che non gli appartiene più per la scomparsa dell’amore che più gli era conosciuto: la casa dell’infanzia abbandonata, l’innamorato perduto, l’abitudine rimossa ai rapporti coi fratelli.
Nel commiato non dichiarato persistono certamente i momenti di trascurabile felicità, ma più di una sgargiante madre il cui consapevole presentimento va oltre quanto voglia e possa ammettere e del solito momento catartico musicale trash-pop alla Dolan (Dragostea din tei) è la fragile cognata sconosciuta a connettersi al suo dolore. Impossibile non apprezzare la fattura tecnica ed estetica di un film-saggio che s’intreccia perfettamente nel telaio dell’opera del suo autore. Molti sostenitori ne stanno celebrando pregi che molti detrattori identificano come difetti. Dispute legittime. Ciò che davvero mi sembra lecito rivendicare sia una qualche delusione per la mancata empatia che non sa comunicare. Un mélo fiammeggiante che non commuove ha qualcosa che non va.
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