Regia di Xavier Dolan vedi scheda film
E' un bellissimo film e Xavier Dolan è inappuntabile, anche con i suoi primi piani che scrutano ogni smorfia ed espressione dei personaggi, totalmente vicino e addosso con l’obiettivo, con questa luce a forte contrasto come a fotografare i contrasti familiari.
Quasi sempre un kammerspiel non richiede necessariamente una trama compiuta, con un antefatto, uno sviluppo, una conclusione… no, un vero kammerspiel come diocomanda è uno svolazzo di 60/90 minuti pieno di discussioni e più volentieri di acerrimi litigi, in cui i pochi protagonisti si azzannano liberandosi di tutte le scorie che covano dentro l’anima verso gli altri presenti. E tutto rigorosamente chiusi in un piccolo ambiente con poche camere, magari solo una. Non necessariamente claustrofobico, ma sigillato dal resto del mondo. Ultimamente avevamo goduto di questa spettacolare messa in scena per merito di Roman Polanski con i suoi ‘Venere in pelliccia’ e ‘Carnage’ e se andiamo più indietro gli esempi sono tanti, perfino Ingmar Bergman e il suo sofferto ‘Sinfonia d'autunno’. È questo lo schema adottato da questo giovane imprevedibile e spiazzante regista. Xavier Dolan è al suo sesto film e le attese crescono ogni volta, in maniera inevitabile, e ciò può anche rappresentare un problema per lui, essendo facile a questo punto deludere le aspettative, sempre più alte. Forse gli è successo oggi, anche perché fino adesso è stato un crescendo di qualità, specialmente dopo l’esplosione del superpremiato ‘Mommy’, alloro a Cannes 2014, e il pregevole ‘Tom à la ferme’ (uno dei più belli a mio parere, il più intenso). Non è facile ripetersi a questi livelli e soprattutto sorprendere ancora.
Cinque personaggi che però non fanno famiglia, per lo meno nel senso di unione e coesione. Forse di affetto, forse, ma più per nostalgia per i vecchi tempi che per effettivo legame sentimentale. La mamma Martine (Nathalie Baye) è evanescente, frivola, sa dire solo frasi inutili, non incide a tenere uniti anzi causa dissidi e litigi, ma soprattutto non vede e non sa leggere la situazione, né i suoi figli. Sa poco del figlio che arriva, non gli si avvicina mai come una vera madre. Solo apparenza: elegante, profumata, con unghie laccate e asciugate in fretta col phon e con un solo rammarico, quello del pranzo della famiglia riunita che purtroppo non produce l’armonia in cui tanto sperava.
Antoine (Vincent Cassel) è il fratello maggiore iroso e irritabile, pronto a litigare con chiunque, non sa star zitto, deve commentare ogni frase e ogni comportamento, criticando tutto quello che sente e che vede. Insopportabilmente al centro di ogni disputa, mascherando una profonda fragilità interna che esplode solo nel finale, con le nocche del suo pugno proteso verso il fratello già sbucciate come se avesse già colpito più e più volte il viso gentile del fratello atteso.
Catherine (Marion Cottilard) è la moglie di Antoine, bella, raggiante, con il sorriso che illumina la casa, ma così timida e insicura che saltella sulle parole come una balbuziente, intimidita anche dalla presenza del cognato che arriva e che non ha mai conosciuto. In lui vede una persona gentile e nobile, degna delle sue attenzioni e gli si rivolge tentennante e alternando il tu e il lei. Gioco linguistico che Dolan si può permettere dal momento che nella lingua francese esiste il “tu” e il “vous” con cui ci si può parlare. Gioco impossibile in lingua anglosassone. L’altalena dei due pronomi accentua abilmente e visibilmente i timidi e insicuri colloqui tra i due personaggi.
Suzanne (Léa Seydoux) è giovane e baldanzosa, incuriosita della visita del fratello che conosce poco, essendosi separati da ben 12 anni. Sono attratti l’un verso l’altro, si studiano come due animali consci di poter andare d’accordo, dispiaciuti di aver perso l’occasione per frequentarsi per tanto tempo. Attiva e disponibile, ha spesso momenti di caduta in quanto sempre con una “canna” tra le dita, talmente assuefatta che nessuno ci fa più caso.
Infine, ma soggetto al centro dell’attenzione di tutti, fulcro della situazione, perno su cui gira il film, ecco Louis-Jean (un meraviglioso Gaspard Ulliel), il figliolo che si è assentato per tanto tempo per iniziare la sua attività di scrittore teatrale e che vive in città, prima nel quartiere gay poi, con il successo, in una casa del centro. Louis-Jean è titubante a proposito della sua visita in famiglia, non si è mai sentito perfettamente a casa sua con quei familiari così distanti dal suo carattere, tranquillo e riservato. Non ama discutere con loro, ma si è dovuto decidere: non può evitare di rivelare a loro che purtroppo non gli è rimasto molto tempo da vivere. Deve dirglielo, deve metterli al corrente, ma nessuno è capace di guardare aldilà del proprio naso, di “sentire” il vicino, di guardare il familiare per capire se ha problemi e se ha bisogno di aiuto. Personaggi così egoisti ed egocentrici che non riescono a vedere il suo viso pensieroso e triste, ad eccezione dell’unica persona sensibile e solare della casa, appunto sua cognata Catherine, che arriva perfino a fargli la domanda fatidica (“Quanto tempo?”) ma che ritratta immediatamente per paura sia della risposta che dell’eccessiva confidenza che sta instaurando con Louis-Jean. Quindi, noi, di conseguenza non sapremo mai quanto avrà da vivere ancora il giovanotto. Tra i due si instaura un rapporto speciale, un’intesa fatta di sorrisi e ascolti – anomala per quella casa – e di comprensione reciproca. Fino al punto di stimolare una certa reazione di gelosia nell’irascibile Antoine, culminata nella scena finale che sfiora la violenza: il macho che diventa violento verso il fratello minore. Gay. Ecco il risvolto sociale di una scena che avviene troppe volte nelle nostre città, nella vita di tutti i giorni.
Tutto ciò avviene in una casa in cui la luce è un componente influente come il sesto personaggio dell’opera. Tapparelle semichiuse, sole di traverso che illumina solo parzialmente la scena, fotografia forte e satura e di conseguenza semibuio in sala, sul cui schermo dominano i primi piani dei cinque volti, alternati appunto dal serrato montaggio che viaggia ad alto ritmo. Tanti primi piani di visi ora arrabbiati, ora falsamente sorridenti, talora momentaneamente rilassati e su tutti il viso melanconico di Louis-Jean, che non riesce a trovare il tempo, tra tanti litigi, per dire quello per cui ha deciso di andare a trovarli e pranzare con loro. No, non ci riesce, anche perché ha capito che è inutile. Avrebbe solo dato origine ad un’altra di quelle scenate isteriche ma soprattutto ipocrite che caratterizzano la famiglia Knipper e ciò non è quello che lui cerca e preferisce così un silenzio tanto pesante e significativo.
Prima o poi bisognerà mettersi intorno ad un tavolo e cominciare a parlare delle affinità e delle differenze di Xavier Dolan con Pedro Almodóvar, perché è, secondo me, un discorso inevitabile. Come il regista spagnolo, il francocanadese pone al centro delle sue turbolente storie il tema della omosessualità anche se con un diverso approccio che allontana i due stili. Se Almodóvar attornia i suoi personaggi principali le tante donne delle sue storie, tutte frenetiche e romantiche, Dolan preferisce l’ambiente giovanile e spesso la figura importante e determinante della mamma, così come in ‘Tom à la ferme’ e soprattutto come succede nello straripante ‘Mommy’, non solo nel titolo. E se il mondo dello spagnolo è dominato dall’atmosfera mélo e romantica, il cinema di Dolan è mosso e agitato dalla irrequietezza giustificata dall’età giovanile dei suoi protagonisti alla ricerca dell’affermazione della propria personalità e sensualità, è un cinema più moderno abitato da sentimenti impazienti ma non meno dolorosi e da personaggi più isolati e meno compresi. Proprio come Louis-Jean, che appena capisce che con quella famiglia ha poco da spartire e che non sente più sua, dove non trova neanche l’occasione e il momento giusto per metterli al corrente del motivo per cui si è ripresentato, ecco che sceglie di rimanere in silenzio, con il suo sorriso amaro e malinconico e riparte. Lo capiranno dopo, forse. Ancora un’occasione persa. Eppure era arrivato fiducioso e se lo era detto tra sé e sé, prima di lasciare il taxi che lo aveva portato dall’aeroporto: “Segreti, singhiozzi, recriminazioni, è imprevedibile. In ogni caso è solo un pranzo in famiglia, non è la fine del mondo”. Ed invece la visita fugace e interrotta dall’intervento brusco e nervoso del fratello termina in anticipo e diventa davvero la fine del mondo. Solo e inevitabilmente la semplice fine del rapporto, del suo mondo, e si avvia verso la fine della vita. Tutti rimangono delusi, tutti. Chi per un motivo e chi per un’altro: Louis-Jean perché avrebbe dovuto e voluto parlare del suo problema; la mamma perché ha sperato fino all’ultimo che quel pranzo avrebbe riunito, nel significato più profondo, la famiglia; Antoine perché avrebbe voluto essere più generoso e meno arrabbiato e si rende conto di aver perso l’ennesima occasione: Suzanne perché avrebbe voluto conoscere meglio il fratello e stare molto di più con lui; Catherine perché era attratta da quell’animo gentile di Louis-Jean e le piaceva parlare tanto con lui.
Anche questo kammerspiel si manifesta come uno svolazzo di tempo, anzi come e con uno svolazzo di un uccellino, che – metafora perfetta – esce dall’orologio a cucù e svolazza per la casa sbattendo ciecamente inutilmente sulle pareti alla ricerca di una soluzione, della finestra per la libertà, ma si abbatte esausto e morente sulla moquette. Vai, Louis-jean, vai, torna alla tua vita, torna agli ultimi scampoli che ti sono rimasti, tanto la tua inutile mamma, il tuo nevrotico fratello, la tua sconosciuta sorella non ti ascolteranno mai.
Non sarà il suo miglior film, secondo alcuni - forse risente del fatto che il soggetto viene da lontano, dai tempi di ‘Laurence Anyways e il desiderio di una donna...’ (2012) quando la stessa Nathalie Baye gli aveva consigliato la lettura e che non lo aveva convinto molto in prima istanza - ma Xavier Dolan è inappuntabile, anche con i suoi primi piani che scrutano ogni smorfia ed espressione dei personaggi, totalmente vicino e addosso con l’obiettivo, con questa luce a forte contrasto come a fotografare i contrasti familiari. I suoi film sono sempre incisivi e mai banali e sempre con brani musicali “forti” e oculatamente scelti, che danno ritmo ed esaltano le memorabili inquadrature. Tutto il film poggia sulle bellissime espressioni del bel viso di Gaspard Ulliel, un attore molto dotato e perfetto per il ruolo del protagonista: recita in silenzio ma dice tante cose, esprime tanti sentimenti e lo spettatore vive nei suoi occhi, nella sua cicatrice, nel suo sorriso appena accennato, rivolto sempre a tutti, spaventato solo quando il fratello diventa violento, perplesso davanti alla smanie della madre, ma pieno rivolto alla bella cognata. Vincent Cassel è la solita faccia da schiaffi, sia nei panni dell’esuberante che dello schizofrenico, ben utilizzato. Nathalie Baye è la mamma che nessuno vorrebbe e la sa fare, ben conoscendo le aspettative di Dolan. Léa Seydoux è la perfetta ragazza fuori dagli schemi, ribelle e equivoca, e se la cava benissimo. Infine in scena c’è un raggio di sole, anzi un sole pieno: è il viso di Marion Cotillard, che illumina la semibuia casa dei Knipper. Bella, raggiante, illuminante, radiosa, è il sorriso e la timidezza che danno sollievo. A Louis-Jean e a noi spettatori attoniti.
Non è il miglior film di Dolan? Io lo trovo bellissimo. È solo una questione di classifica: i film di Xavier Dolan vanno sempre visti, altrimenti si perde un’occasione di buonissimo cinema. E ne vedremo ancora delle belle.
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