Regia di Xavier Dolan vedi scheda film
Il ritorno a casa come atto dovuto, ma anche desiderato per tentare un commiato più leale dell'addio che fu dodici anni prima, nei confronti di una famiglia che è sempre stata un ostacolo. Ancora famiglie burrascose per un Dolan che pensa allo stile, ma che tuttavia smarrisce completamente la via della genuinità.
FESTIVAL DI CANNES 2016 - CONCORSO- GRAND PRIX DU JURY
Più di un decennio è trascorso da quando Louis e' fuggito di casa.
Ora ha deciso di tornare: per l'ultima volta, dato che sta morendo, ma deve trovare il modo per congedarsi nel modo più opportuno con la sua particolare, eccentrica, turbolenta famiglia.
A casa intanto fremono i preparativi: verdure per un coreografico pinzimonio da affettare, unghie da finire di smaltare: nulla è mai pronto, il tempo non è mai sufficiente, la frenesia di caratteri facili all'ebollizione non aiuta a mantenere il sangue freddo e a terminare il da farsi.
Quando Louis mette piede in casa, già ancora sull'uscio si accorge che nulla è cambiato: il fratello nevrotico è sempre più agitato, anche se ora può sfogarsi su una compagna carina ed insicura che lo venera goffamente come se lo temesse; la sorella minore tenebrosa e insicura che ossequia questo suo fratello famoso senza riuscire a manifestarlo, e una madre eccentrica (caratteristica essenziale ed inevitabile nel cinema di Dolan) agghindata vistosamente e con un trucco così smodato da sembrare un trans.
L'imbarazzo dura un attimo, perché tutto poco dopo ritorna come quando Louis non era ancora un noto scrittore e la vita in famiglia era un'unica disputa di caratterialita' incompatibili e invidie, rancori, turbamenti insanabili.
Xavier Dolan ci sguazza ad adattare un'opera teatrale di un autore canadese che si insinua con decisione ed irruenza nei meandri claustrofobici di una manciata di insicuri e schizofrenici alla ricerca di una propria perduta stabilità.
Ma il film mostra proprio in questi suoi numeri e vezzi plateali, puerilmente estroversi e teatrali, tutta la sua fragilità ed il suo calcolo.
Dolan regista giovane e premiato può permettersi di circondarsi di cinque tra i più noti attori francofoni (si anche Natalie Bay che è pur sempre la terza attrice ultrasessantenne di Francia tra le piu' celebri dopo Deneuve e Huppert), i più glamour, belli e seducenti e pure molto presenti sul mercato.
I migliori tra tutti sono Gaspard Ulliel e Marion Cotillard: i loro sguardi tristi, i reciproci occhi umidi di chi sa e non vuole o non può dire, rimangono esemplari, l'unico tassello autentico e toccante di una vicissitudini familiare che a volte sconfina nella farsa.
Cassell nel rendere il suo difficile controverso personaggio schizofrenico sconfina nel manierismo, mentre la Bay fa i conti con un personaggio costruito troppo sulla fisicità e troppo poco caratterialmente.
Le cose importanti da dirsi lasciano posto, all'interno della pazza famigliola, alla stupida superficie di chi non sa andare a fondo ed arrivare al nocciolo del problema.
L'incomunicabilita' rende ancora più incolmabile certe distanze caratteriali.
Dolan gira benissimo, bisogna riconoscerglielo, e prova ad incantarci con metafore appassionate (l'uccellino sul finale) e con un bombardamento di hit pop dance di un decennio orsono che non possono non risultare accattivanti: ma è tutto troppo studiato a tavolino per riuscire ad emozionarsi, e questo Juste la fin du monde appare senza dubbio come il lavoro meno personale e più scaltro e costruito del pur valido giovane talento canadese.
Il Gran Prix ottenuto è un regalo concesso senza criterio....soprattutto se si pensa ai Dardenne di La fille inconnue, a Tony Erdmann e al Dumont di Ma Loute, usciti completamente a bocca asciutta dal concorso "cannese".
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