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È solo la fine del mondo

Regia di Xavier Dolan vedi scheda film

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La recensione su È solo la fine del mondo

di EightAndHalf
3 stelle

Come una fiera della logorrea, in cui si dice tutto e non si dice niente, arriva il primo film di Xavier Dolan sulla Morte. Inetivabile passaggio, a porre fine a qualunque discorso iniziato coi film precedenti.

Desaturato, piatto, (apparentemente) ridotto ai minimi termini: Juste la fin du monde è tutto questo. Un film che si parla addosso e si autoinfligge pericolosamente con la facile lama della visionarietà. È, diciamolo subito, un film di fantasmi; recessi ectoplasmatici proustiani ma sconsideratamente pop (e perché no?, malickiani) discutono e mostrano e comunicano il sentire elementare del protagonista, e i meccanismi mentali che lo riportano come madeleine a sfocati simulacri del passato. Voilà, è tutto materiale nuovo per l’aneddotico ed entusiasta out of focus dolaniano (vedasi Mommy e il suo finale alternativo), e per il suo amore spudorato per la bella fotografia (il pretesto è l’alternarsi simbolico dei climi metereologici: nel film è sereno, è nuvolo, piove, risbuca fuori il sole). Ma c’è di più, aneddotico è anche l’utilizzo delle immagini, e l’arido montaggio rimbalzante. L’utilizzo delle immagini si traduce nel desiderio di trascivere sui sembianti dei suoi protagonisti lo scivolìo crudele della Morte (dice Nathalie Baye: “abbiamo paura del Tempo”, quasi à la Noé, le temps detruit tout), e in particolare il lento scomparire delle figure nello sfocato, nel buio, nell’eccessivo chiarore. Un certo, indubitabile, negarsi all’immagine, da parte dei personaggi (il tavolo da pranzo esterno, prima pieno, poi lasciato vuoto se non dalla figura di spalle di Marion Cotillard). Il montaggio a ping pong è invece il classico campo-controcampo che cerca, in contrasto al negarsi delle figure, di imporre il volto dei protagonisti. Qui però ad ogni campo corrispondono almeno 4 controcampi, essendo solo 5 i protagonisti sempre in scena. Si noti però come appare didascalico e accademico l’utilizzo della dissolvenza incrociata, isolata alle sequenze oniriche, per delimitare i campi e dunque mantenere in zona comfort lo spettatore poco spiazzato.

Juste le fin du monde è un film claustrofobico che gioca con i sensi primari dello spettatore, senza riuscire mai a sbarcare nel postmoderno, o in qualunque altra scelta artistica degna di nota. In contrasto con chi afferma che certi altri film autoriali siano fin troppo concettuali, è invece concettualissimo il nuovo film di Dolan (e anche tutto il suo cinema): è un modo di girare che scava nelle idee e nelle trovate, praticamente un campionario di immagini che cercano l’angolatura più curiosa, per la più strampalata delle scene. Fuffa, fumo negli occhi. Ogni scena del film sembra accontentare uno stato d’animo differente, tradendo l’unicità e l’univocità ricercata del film stesso, come se potessimo vedere proprio lì, in mezzo alle immagini, Dolan che sviscera tutto il materiale che gli viene in mente, e si sfoga senza però mai lasciarsi andare. Ma Juste le fin du monde non è un film né sull’immaginazione, né su un’eventuale schizofrenia emotiva (che porta in effetti Dolan a usare con sfacciata noncuranza le musiche più disparate): quello che le immagini vogliono dire (e si fanno intendere, perché spesso sono facili, schiette, dirette) è che la vita è, se non per rari sprazzi sognanti, un lento avvicinarsi alla luce (il finale). Ma, sorvolando sull’eventuale originalità dell’idea (e di tradurla in un dramma familiare da camera), è davvero così affascinante una divisione così netta delle parti? Un uso così simbolico e schematico delle scene e delle sequenze si addice all’idea immersiva di un cinema che vuole a tutti i costi emozionare, percuotere, destabilizzare con i suoi estremi opposti?

Il vero cortocircuito, che è l’unica vera idea del film, è proprio quello tra l’alternarsi affannoso dei primi piani e il degrado obnubilante dello sfocato e del buio. Ma è solo l’ennesimo specchio di uno schematismo mentale e formale desolante. E nel film, poi, non c’è ritmo né non-ritmo: i dialoghi sono risibili impennate di pretestuosità, che si confondono fra il registro musicale (più forte più debole, diegetico extradiegetico, pulsante silenzioso), i volti dei personaggi, e la necessità di capire chi è chi, chi è che parla, con chi sta parlando e cosa sta dicendo: possiamo vedere quasi, anche qui, Dolan che si mette le mani fra i capelli in post-produzione e non sa che pesci pigliare. Sarebbe ottima l’idea di annullare gli spazi a favore dei volti, ma non nuova, né ben resa in questo caso (vedasi, al riguardo, il lavoro sui primi piani e sull’out of focus di Desde Allà di Lorenzo Vigas, un altro regista giovanotto che almeno in ambito finzionale ha però idee piuttosto mature): nonostante la claustrofobia, si vede tutto, si capisce tutto, si ascolta tutto con la più imbarazzante delle scuse (Nathalie Baye che vuole raccontare a tutti i costi delle domeniche della famiglia, nonostante tutti sappiano già di cosa sta parlando, è emblematica di un cinema ridondante che cerca ormai giustificazioni ovunque e a caso). E di dubbi ne rimangono davvero pochi, tutti sfocati (anche loro) fin dai primi 20 minuti, in cui con urlante ingenuità ci viene detto come manco in una soap opera come si chiama chi, qual è la situazione e cosa è successo in passato ai personaggi. E, a proposito di soap, il prefinale illuminato e litigioso sfida i decibel delle sequenze più involontariamente esilaranti di Gabriele Muccino.

Si faccia dunque un appello ai film che peccano di autoconsapevolezza: conoscere i difetti che vi portate dietro, e lasciarli comunque alla mercé dello spettatore, non vi rendono superiori, né più rischiosi, né più innovativi. Vi rendono pretestuosi e irritanti discorsi a vuoto. È l’amara realtà, nella maggior parte dei casi, dell’autoironia e dell’autocoscienza, specie nei casi più faciloni come questo.

È solo il film più brutto di Xavier Dolan.

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