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Vogliamo vivere

Regia di Ernst Lubitsch vedi scheda film

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La recensione su Vogliamo vivere

di (spopola) 1726792
10 stelle

Vorticoso e surreale gioco di specchi, è un magnifico film sulla bieca assurdità quasi clownesca del nazismo, che è anche un’accusa pesante e motivata contro l’assurdità della guerra. Un vero e proprio elogio dell’illusione scenica con un Hitler (da barzelletta) che viene combattuto e vinto grazie a un perfetto e divertente congegno a orologeria.

Lubitsch era un principe…  Se qualcuno dice: “ho appena visto un film di Lubitsch dove c’era una inquadratura inutile”, costui mente: nel suo cinema tutto è necessario e indispensabile (…) Nella costruzione di “To be or not to be” – uno dei suoi indiscussi capolavori - Lubitsch passa in rassegna tutte le soluzioni disponibili per utilizzare quelle mai adottate prima, l’impensabile, l’enorme, il paradosso… (François Truffaut)
 
La coraggiosa e meritoria riproposizione in sala di questa pellicola (restaurata e in lingua originale con i sottotitoli) da parte di una Casa indipendente come la Teodora, è stato credo uno degli eventi memorabili della canonica stagione cinematografica autunno/inverno/primavera recentemente conclusasi, perché si è optato (addirittura con molta temerarietà) non per il solito passaggio “mordi e fuggi” ma per una programmazione di ben più lunga durata che ha coinvolto anche gli esercenti: a Firenze per esempio è stato il Cinema Portico (e le sue due sale) ad accettare e condividere quella che mi sembra di poter considerare una vera e propria “sfida” (la tenuta complessiva fra “sala grande” e “sala piccola” è stata praticamente di un mese) che ha provato a risvegliare, chiamandolo direttamente in causa, un pubblico sempre più pigro e “disconnesso” che non può questa volta nascondersi dietro l’alibi di un passaggio troppo frettoloso: chi aveva voglia di vederlo, ha certamente avuto il tempo e il modo per farlo, non può accampare scuse.
Non conosco il bilancio complessivo di questa coinvolgente operazione, ma spero che sia stato positivo perché questo potrebbe stimolare altri progetti analoghi di cui si avverte sempre più il bisogno, per recuperare in tutta calma e tranquillità proprio sul grande schermo, molti classici “antichi” della settima arte, spesso sconosciuti alle nuove generazioni se non per qualche passaggio televisivo (altrettanto “azzardato”, trattandosi di un film in bianco e nero) magari relegato nelle “impossibili” ore della notte. Come testimonianza personale, posso sottolineare comunque che alla proiezione a cui ho assistito io (il  primo spettacolo del pomeriggio di un sabato del mese di giugno già inoltrato che si era già lasciato alle spalle le piogge e le temperature autunnali delle settimane precedenti), in sala eravamo più o meno una cinquantina di attempati spettatori (in prevalenza donne, come sempre accade) e che quasi altrettante persone le ho trovate in fila all’uscita per l’acquisto del biglietto per la proiezione successiva, il che fa ben sperare sul fatto che l’investimento non sia risultato totalmente in perdita.
Posso anche assicurare che pur conoscendolo praticamente quasi a memoria avendolo visto e rivisto un’infinità di volte, è stata un’emozione grandissima ritrovarmelo davanti “a tutto schermo”: per me il cinema è anche “condivisione”, e la visione in sala è il luogo ideale per fare un’esperienza come questa e potermi così lasciare trascinare, di nuovo in buona compagnia, nel gioco degli equivoci, dei  travestimenti, degli incroci fra realtà e palcoscenico, da un canovaccio “a orologeria” solo in apparenza “leggero” (come ben sappiamo, la sceneggiatura e la regia sono davvero al fulmicotone, di quelle indiavolate e piene di trovate che si possono a buon diritto definire senza un attimo di tregua), ma che aiuta a pensare e riflettere seriamente sulle cose, mentre ci si scompiscia (ancora oggi) dalle risa come se lo si vedesse davvero per la prima volta.Una pellicola insomma che è uno strepitoso, feroce e corrosivo attacco al nazismo, ma anche una acuta  riflessione sul mestiere dell’attore e sulla sostanza del teatro che mantiene inalterato valore e verve senza denunciare il peso dei tanti anni (si superano i 70) che ha sulle sue spalle.
 
Se conosco Josef Tura? Oh, sì lo ricordo bene. Trattava Shakespeare come noi trattiamo la Polonia.
 
Come ho già accennato sopra, To be or not to be  è dunque un Lubitsch scanzonato, perfetto nei ritmi e nelle interconnessioni, che all’epoca però fu davvero poco compreso (lo accusarono ingiustamente di cinismo, di mancanza di rispetto per le vittime e per i combattenti) semplicemente perché parlava di un argomento tragicamente serio trattandolo con i ritmi e i tempi della commedia,  un presunto “arbitrio” considerato quasi un abuso un po’ blasfemo che allora fece molto scalpore e che costrinse il regista a difendersi dai pesanti e ingiusti attacchi di chi non era riuscito – colpa sua – a comprenderlo fino in fondo (il pesante giudizio morale era davvero fuori discussione e non avrebbe dovuto dare adito a malintesi). Il tempo è comunque galantuomo e questa nuova rivisitazione in sala, conferma la pellicola come uno dei capolavori assoluti non solo della sua davvero irripetibile maniera di fare spettacolo che non aveva paura di mischiare il sacro con il profano per realizzare grande cinema (intelligente e popolare) al di là delle mode e delle convenzioni, ma anche di tutta la storia della settima arte, perchè come il buon vino di qualità, non solo si è conservato integro, ma negli anni ha acquisito addirittura nuovo sapore e inedite fragranze:  innanzitutto un divertissement (perfidamente erudito) insomma (obbligatorio in questo senso il paragone con un'altra straordinaria “commedia satirica” come Il grande dittatoredi Chaplin) diretto con suprema maestria da un regista al culmine della sua arte e che di conseguenza, al di là del valore storiografico dell’ambientazione..: era solo (soprattutto, mi verrebbe da aggiungere) una satira degli attori oltre che dello spirito nazista e del loro comportamento da pazzi, come ebbe a dichiarare lo stesso Lubitsch.
Il teatro, la vita, la guerra e la finzione, che si scontrano quindi con la tragedia più terribile perpetrata dall’apparato nazista (quella che ha insanguinato il mondo del novecento), e dove sarà poi proprio il repertorio approssimativo della scalcagnata compagnia Tura che finirà per avere la meglio su tanto orrore, poiché qui gli attori sono i soliti “cialtroni della scena”, inattendibili, vanesi, a loro modo sfrontati, temerari, mentitori (anche infedeli) che soffrono, giocano e provano persino a farsi gli sgambetti aspettando l’applauso, ma si dimostrano anche capaci di sopravvivere a tutto con la loro doppia vita fra realtà e teatro (e molta sottesa umanità) che li fa sentire quasi invincibili, praticamente “immortali”,  e riescono per questo persino ad “osare” sfidando l’impossibile. Come scrisse a suo tempo Guido Fink infatti, la salvezza, l’arma segreta di questo teatro in apparenza innocuo, è proprio la coscienza della finzione, la complicità che sa stabilire con lo spettatore ai danni di un altrospettatore ingenuo o ignaro, portato direttamente sulla scena e destinato, a sua volta, a diventare, senza saperlo, parte del gioco dentro a un universo grottesco pateticamente chiuso in se stesso che contiene però – inattesi – i suoi anticorpi. Un vero e proprio elogio dell’illusione scenica insomma, con un Hitler (da barzelletta) che viene combattuto con le barbe finte, e dove semmai sono proprio i nazisti veri a risultare alla fine dei pessimi “attori”, e degli ancor più inattendibili “commedianti”.
Il tema del doppio fra vita e finzione, qui è portato alle estreme conseguenze, declinato in tutte le sue possibili derivazioni (teatro nel teatro, realtà e fantasia) senza alcun timore di "sporcarsi le mani" nel mescolarlo con quello ben più drammatico della guerra in corso, unico film del periodo girato da un esule (che quindi sà di cosa parla) che non si rifugia però in paesi immaginari e in ambientazioni da operetta, ma che si colloca invece (giustamente) addirittura proprio al "centro" del problema (nel caso specifico, quello della Polonia occupata dai tedeschi), e che in assoluta controtendenza, non ne fa comunque una tragedia, trattando invece da par suo le cose con un tono sapido, ma graffiante e spesso al vetriolo, che rende il tutto ancora più cattivo e "devastante".
La leggerezza del film potrebbe forse aver urtato nell'immediato chi conosceva, o stava vivendo in diretta le atrocità tedesche e del suo nazismo, perpetrate non solo in Polonia, ma in tutta l'Europa, ma solo se ci si fermava alla superficie però, perché qui c'è sicuramente il gusto dello sberleffo, ma non si manca mai di rispetto all'evidenza della Storia, e pur non rinunciando al gioco, la messa in burletta dei "cattivi" è strafottente, lascia il segno: il suo tocco ironico e svagato è solamente in anticipo sui tempi, perché sarà poi consentito e permesso (giustamente e senza troppe indignate reticenze) molti decenni dopo (gli esempi della nostra cinematografia contemporanea sono molteplici) analogo procedimento dissacratorio visto che scherzarci sopra adesso con la giusta misura (o meglio mettendo molte cose alla berlina) è possibile e salutare, contribuisce a mantenere attiva la memoria, a rimarcare indirettamente gli orrori, e a prendere le distanze da quei fatti atroci.



Tutto il mondo è un palcoscenico – e tutti, uomini e donne, sono solo attori – hanno le loro entrate e uscite – e ognuno nel suo tempo fa molte parti (William Shakespeare, Come vi piace)
 
To be or not to be, adattato dal commediografo newyorkese Edwin Justus Mayer  a partire da un testo dell’ungherese Melchior Lengyel (che già qualche anno prima aveva fornito a Lubitsch gli ingredienti “letterari” per il successo di Ninotchka) aveva avuto la coraggiosa intuizione (per quei tempi ovviamente: oggi come già detto, concediamo al cinema ben più ampie e giuste libertà senza scandalizzarci troppo per presunti  reati di “lesa maestà”) di ambientare la vicenda a Varsavia, alla vigilia e durante l’occupazione tedesca, intessendoci sopra una scoppiettante serie ben concatenata (e stupendamente congegnata) di dileggi e beffe orchestrate nei confronti di Hitler e della Gestapo, e questo proprio quando il mondo e le nazioni venivano sconvolte dalla più devastante delle guerre moderne. Di fronte alle tragedie scatenate dal nazismo (e quindi praticamente “a ridosso” della Storia), Lubitsch scelse così di  combattere la prepotenza di quel “nemico” crudele che si portava dietro morte e devastazioni, con le armi che gli erano più congeniali (quelle della finzione e dell’illusione comica) e riuscì magnificamente nell’intento.
Così, come in un gioco di specchi vorticoso e surreale ma dal rigore inflessibile che nulla lascia al caso, decise di comporre “da par suo” con quella divertita intelligenza “al vetriolo” che ben conosciamo ed apprezziamo ancora oggi, un film sulla bieca assurdità quasi clownesca del nazismo, che è anche un’accusa pesante  e motivata contro l’assurdità della guerra (di ogni guerra naturalmente, compreso quella ben più surreale che la finzione finisce per scatenare e che riesce a vincere sulla scena,certamente meno sanguinosa ma ugualmente coinvolgente) nel far diventare “satira crudele” persino la drammatica realtà del momento storico di riferimento.
Il velo che separa i due terreni (la realtà della guerra e la finzione della scena) è qui davvero sottilissimo e si sviluppa e prende corpo con una schermaglia che diventa un gioco delle parti sempre più pericoloso e in continua evoluzione, e dove insieme ai travestimenti e alle barbe posticce (che sono al centro di uno dei culmini satirici del film) è proprio il mestiere dell’attore ad essere la virtù più importante che fa la differenza, e che accomunata allo spirito eroico dei suoi protagonisti, diventa l’unica arma  con cui alla fine si può riuscire persino a farla franca e a salvarsi, ricorrendo ovviamente  anche a una buona dose di “improvvisazione” (la conferma che Lubitsch era pur sempre e giustamente, un caustico ottimista).
Il regista che non si accontentava mai di qualcosa di meno della perfezione (e il gioco a incastri messo in atto se non avesse un meccanismo perfetto e ben oliato non potrebbe funzionare così bene) ha avuto poi l’accortezza di organizzare il suo lavoro puntando sulla tensione (che si fa a volte davvero spasmodica anche in chi sà già come andrà a finire) per dare poi libero sfogo al divertimento liberatorio del racconto, concentrando praticamente (quasi) tutto davanti e dietro (soprattutto dietro) le quinte di un teatro, perché è proprio l’apparato scenico nel suo complesso ad essere il palcoscenico per eccellenza dell’illusione comica che si protrae “allargandosi” oltre la scena, anche quando l’obiettivo si sposta all’esterno, tra le rovine altrettanto di “cartapesta” della città sfregiata dai bombardamenti sotto i cieli deturpati dai solchi tracciati dalla contraerea, o nei sontuosi edifici occupati dagli alti comandi dell’esercito  invasore.
 
Nascondi ciò che sono. E aiutami a trovare la maschera più adatta alle mie intenzioni (William Shakespeare, La dodicesima notte)
 
Il congegno ad orologeria, le scatole cinesi che si aprono e si chiudono continuamente all’interno della pellicola scandite con metronomica  precisione nei tempi e negli incastri, guidano e depistano continuamente lo spettatore nella babele degli sdoppiamenti, degli equivoci e della successione dei “riconoscimenti”, tra qualche piccola parentesi di necessaria suspense e molte risa giustamente intermittenti, proprio perchè intermittente è anche l’intreccio della realtà e della finzione che Lubitsch non intende deliberatamente sciogliere “completamente” nemmeno nel finale (un altro piccolo colpo di genio).
Il tutto, viene tenuto in piedi con un continuo rimando anche ipertestuale alle parole e ai versi dell’insuperabile poeta elisabettiano, Shakespeare appunto, dalla cui opera è tratto il titolo originale (molto più pertinente di quello appioppatogli qui in Italia) della pellicola: non solo con la citazione “funzionale” dei monologhi di Amleto e di  Shylock o dei divertenti brevi accenni a quello di Marcantonio, ma anche e soprattutto sulla base più indotta ed indiretta - ma della quale se ne percepisce pienamente il senso - riferita alle celebri parole pronunciate da Jacques in Come vi piace: “Tutto il mondo è un palcoscenico – e tutti, uomini e donne, sono solo attori – hanno le loro entrate e uscite – e ognuno nel suo tempo fa molte parti”, appunto.
Non lo scioglie infatti quell’ntreccio nemmeno nella sequenza (sublime) in cui Greenberg, attore frustrato e secondario, ha il suo vero e proprio “momento di gloria” e con uno straordinario colpo di reni e di teatro, sbatte in faccia al Führer (e non importa se sia autentico o posticcio), il manifesto di Shylock dal Mercante di Venezia (vero e proprio “proclama” che dovrebbe smentire ogni presunta supremazia razziale o di qualunque altra specie o origine, perché per dirla con Brecht, un uomo è un uomo, sempre e comunque, punto e basta) : Ma non ha occhi un ebreo? Non ha un ebreo mani, organi, membra, sensi, affetti, passioni? Non si nutre degli stessi cibi, non è ferito dalle stesse armi, non è soggetto alle stesse malattie, non si cura con gli stessi rimedi, non è riscaldato e agghiacciato dalla stessa estate e dallo stesso inverno come lo è un cristiano? Se ci pungete, non facciamo sangue? Se ci fate il solletico, non ridiamo? Se ci avvelenate, non moriamo? E se ci oltraggiate, non ci vendichiamo?
 
Gli attori sono gli unici ipocriti onesti (William Shakespeare)
 
Eviterò di riportare troppi riferimenti “diretti” allo svolgimento della storia: mi limiterò ad osservare però che prima di ogni altra cosa, tutto nasce dal coinvolgimento personale (e sentimentale) della nostra bella – e spudorata – protagonista un po’ fedifraga (deliziosa nel muovere le pedine e scoprire le sue carte salvandosi sempre in corner anche quando tutto potrebbe sembrare davvero perduto, onore compreso), ma si sviluppa poi attirando nella ragnatela “del dover fare necessariamente qualche cosa”,  tutto il complesso di quei teatranti in apparenza più vanesi che calati nella realtà. Gli attori dunque, e la loro ritrovata necessità di provare a calarsi – magari ancora con la propria maschera – dentro la vita per affrontare in prima persona (una volta tanto) la realtà stessa e combatterla con le armi del proprio consumato mestiere (e quindi alterandola, travestendola, manipolandola in ogni modo e maniera).
Ma per agire e cambiarla, per riuscire nell’impresa, bisognerà essere non soltanto dei semplici gigioni (la voglia strafare diventerà anzi pericolosissima a un certo punto): sarà necessario trasformarsi in interpreti capaci di esibirsi (anche improvvisando come ho già accennato sopra) in sfacciati e temerari numeri di bravura. Ed è su questo versante che il film gioca a carte scoperte fino dall’inizio (le prime scene sono illuminanti, e mi riferisco in particolar modo alla sequenza d’apertura con la voce fuori campo che annuncia la presenza per le strade di Varsavia - ben prima del definitivo sfaldamento delle difese polacche che se la memoria non mi inganna, avvenne solo il 1° settembre del 1939, di un Adolf Hitler in divisa e baffetti, temuto e scansato dalla maggior parte degli astanti sospettosamente inorriditi da quell’apparizione, ma rivelato invece per quello che effettivamente era, dal candore di una ragazzina che gli chiede un autografo non perché sia dalla parte del dittatore, ma perché ha riconosciuto - beata innocenza priva di sovrastrutture mentali! - che è solo il travestimento di un caratterista secondario della compagnia locale che proprio in quei giorni, fra un Amleto e un altro, sta provando la messa in scena di una satira del nazismo (e della Gestapo in particolare).
E’ da qui che ha inizio il fuoco di fila grottesco e pirotecnico (lo puoi conoscere a memoria, ma ti coinvolge comunque e sempre come se fosse la prima volta) del “doppio” e dei “ travestimenti” (scusate se ci ritorno sopra, ma è fondamentale), con tutto il repertorio classico dello scambio dei ruoli, degli imprevisti inaspettati, degli equivoci a catena, delle sostituzioni fuori scena, dei morti che non sono morti e… delle barbe finte appunto, in un girotondo sempre più accelerato che rimescola verità e menzogna, sfiorando in certi picchi, persino la comicità surreale del fratelli Marx, perché si parla ovviamente della Storia, ma siamo pur sempre a teatro, e là restiamo anche quando la Storia - quella con la “esse maiuscola”, tanto per intenderci - con la sua tragicità implacabile ci porta al di là del sipario, e sembra volerci catapultare dentro scenari più vasti.
Inizialmente i due protagonisti, Joseph e Maria Tura,  ci vengono presentati come attori irresponsabili, tronfi, egomaniaci, della specie insomma più stralunata dei guitti, ma dal momento che sono costretti ad abbandonare il loro repertorio  e a scendere in campo (a smettere di “non essere” per diventare finalmente attivi ed “essere”), mettendo al servizio della realtà (o della ricostruzione artificiosa della stessa) la loro arte, rivelano ciò che nel bene e nel male c’è davvero di positivo in loro e che li ha fatti diventare dei beniamini del pubblico: destrezza, velocità, spirito, prontezza, geniale capacità di “adattamento creativo”, e soprattutto coraggio (anche “scenico”).
Jack Benny, Robert Stack e Carole Lombard (qui purtroppo alla sua ultima interpretazione, poiché come per una stupida e feroce ironia della sorte – quasi una perversa “sceneggiatura” scritta dal destino - si sarebbe schiantata  in un incidente aereo che questa volta non la stava portando verso la libertà, sulle montagne del Nevada il 16 gennaio del 1942, un mese prima della presentazione del film a Los Angeles) sono i sublimi interpeti principali, davvero favolosi, proprio come lo sono anche tutti gli altri straordinari “caratteristi” che compongono l’affiatato cast (veramente eccellente e inappuntabile la loro dizione, perfetta e comprensibilissima, decisamente meno “biascicata” di quella di tanti osannati divi della contemporaneità). Da ironici “commedianti” di un’arte davvero sopraffina (quella de “recitare”) sono anche i primi a sorridere dei personaggi  che “interpretano” a teatro, delle loro debolezze, delle loro gelosie, dell’autoreferenzialità egocentrica di chi ama mettersi in mostra (tipica dell’attore)  tanto nei panni del Principe Danese che in quelli di un gerarca nazista, vero o presunto che sia: To be or not to be: that is the question – essere o non essere, questo è  il problema… o meglio ancora, sta tutti qui il dilemma, monologo di straordinaria rilevanza ma fra i più abusati (spesso anche a sproposito per l’uso, l’abuso e il disuso, che nei secoli il teatro ne ha fatto spesso con esiti eccellenti, altre volte con prove francamente “discutibili) di tutta la produzione Shakespeariana): Ha fatto a Shakespeare quello che noi stiamo facendo ora alla Polonia” (e qui si ritorna all’incipit di questa mia opinione, tanto per chiudere quasi magicamente il cerchio) è appunto il commento che fa il colonnello tedesco Ehrhardt riferendosi all’interprete Joseph Tura che sta recitando il monologo di Amleto con un evidente eccesso di boriosa enfasi, un “essere o non essere” che qui diventa la parola d’ordine ciclica che regola non solo gli intrighi amorosi “fuori dalla scena” , visto che è proprio durante la sua declamazione che nella platea si alza l’innamorato ufficialetto di turno per andare a “trovare” in camerino la bella Ofelia (ovvero Maria Tura, moglie del titolare in momentanea pausa), ma che diventa anche l’unica opzione praticabile nei movimenti di resistenza improvvisata che la compagnia  polacca si trova  a dover imbastire in quella specie di commedia dell’arte ante litteram organizzata per contrastare lo strapotere degli occupanti invasori, trovare una via di scampo e una soluzione, e salvarsi così anche la vita, in gioco spesso surreale in cui anche tutti gli altri attori partecipano alla tragicommedia senza battere ciglio.
Fondamentale per il risultato complessivo, il contributo della fotografia lineare e senza orpelli di Rudolph Maté (anche operatore di Dreyer, Hitchcock e Clair, oltre che di  Murnau accanto al grande Karl Freund): un bianco e nero suggestivo e denso di sfumature: questo è il cinema signori, e non potete farci nulla!!!! Ed è una vera goduria per gli occhi e per la mente, ve lo assicuro.
 
Tutto il mondo è un palcoscenico – e tutti, uomini e donne, sono solo attori – hanno le loro entrate e uscite – e ognuno nel suo tempo fa molte parti (William Shakespeare, Come vi piace)

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