Regia di Ernst Lubitsch vedi scheda film
Hitler si aggira per le vie di Varsavia, una ragazzina gli si avvicina e gli chiede “Mi fa un autografo, signor Bronski?”: l’inizio folgorante dà il tono a tutto il film. Non lo direi in bilico fra commedia e dramma: è una commedia pura, che però non dimentica la tragedia che si sta svolgendo al di fuori (e perciò lo preferisco di gran lunga a Scrivimi fermo posta, che invece si illudeva di poterla esorcizzare spostando l’ambientazione in un paese da fiaba). Ci sono i consueti intrallazzi amorosi (un classico triangolo, con il giovane innamorato che lascia il teatro per andare a trovare la donna nel momento in cui il marito di lei inizia il monologo di Amleto), solo che vengono inseriti all’interno di un mondo mutato: partigiani, traditori, SS. C’è il mondo degli attori, per i quali l’arte significa trasferirsi in una dimensione diversa; c’è una salvezza che alla fine viene raggiunta in modo beffardo, in barba a ogni verosimiglianza; ci sono le parole di Shylock che, allora come oggi e sempre, sanno interrogare le coscienze (“Se ci ferite, non sanguiniamo? se ci avvelenate, non moriamo?”). Saper ridere e far ridere di Hitler è un privilegio dei geni: Chaplin, Lubitsch, Allen; essere ebrei non è indispensabile ma, come si vede, aiuta.
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