Regia di Edward G. Muller (Edoardo Mulargia) vedi scheda film
Se non lo è Franco Nero, Django può esserlo solo Anthony Steffen. L’ultimo degli Django apocrifi è il secondo che l’attore brasiliano interpreta dopo il meglio riuscito “Django il Bastardo” dove l’estetica cimiteriale propria del personaggio corbucciano è resa giustamente dai toni gotici del film di Sergio Garrone. In “W Django” invece assistiamo quasi alla stessa storia di vendetta dopo l’assassinio della moglie, ma il tutto è amalgamato da una struttura anarchica che in altri casi sarebbe costata la riuscita del film. Mulargia, uno dei più assidui frequentatori del genere, con spirito irriverente rende omaggio al cavaliere misterioso che appare e scompare prima delle sue vendette, e lo addiziona di tratti picareschi creando la coppia Django/Carranza che ricorda la Buono/Brutto di Sergio Leone. Questo film, che ripercorre la struttura “one by one” di film come “Sentenza di Morte” è uno dei primissimi, forse involontari o poco consapevoli, esempi di post-modernismo ante-litteram. Questo perché molti motivi e situazioni ripescati da film precedenti, non sono semplici tentativi di epigonismo mal riuscito, ma piuttosto di citazioni rilette che, unitamente all’anarchismo narrativo del linguaggio, fanno pensare di più ad un’operazione tarantiniana che ad altro. Se il film non passa alla storia come uno dei capi saldi del genere nostrano, è sicuramente una prova di ibridismo riuscita, di gioco narrativo e linguistico che gioca appunto con la pochezza di mezzi e situazioni ritagliate in un bel gioco di azioni, indiscutibilmente ben girate. Su tutte è bellissima una delle scene finali, quando appunto il nostro Django/Steffen appare e scompare dalla vista del suo sfidante prima di seccarlo. Anche il confronto finale tra buono e cattivo è una chicca da non sottovalutare, benchè sia rapida e appiccicata un po’ così poco prima dei titoli di coda.
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