Regia di Adam McKay vedi scheda film
Negli ultimi anni, abbiamo imparato a fare la conoscenza di parecchi termini finanziari e la crisi del 2008 è entrata in tutte le case, almeno mediaticamente, ma The big short si addentra nello specifico a tal punto che qualsiasi conoscenza sommaria è d’aiuto solo fino a un certo punto.
Fortunatamente, Adam Mckay, solitamente avvezzo a tutt’altro tipo di cinema (Anchorman 2 – Fotti la notizia), riesce a trovare una personale chiave di lettura, mettendo le sue attitudini da commediante al servizio di una storia che altrimenti avrebbe rischiato di parlare una lingua se non sconosciuta, come minimo settaria.
Stati Uniti, 2005. La crisi finanziaria del 2008 è ancora lontana da essere anche solo ipotizzabile quando Michael Burry (Christian Bale) capisce che il mercato sta per collassare, scommettendo, contro il buon senso comune, sul suo fallimento. A ruota, Jared Vennett (Ryan Gosling), impiegato della Deutsche Bank, segue l’intuizione convincendo Mark Baum (Steve Carell) e il suo gruppo di lavoro a unirsi a lui. Intanto, anche i ruspanti Charlie Geller (John Magaro) e Jamie Shipley (Finn Wittrock) arrivano per caso alla medesima conclusione: con l’aiuto del collaudato Ben Rickert (Brad Pitt) riusciranno a entrare appieno nel campo di gioco dei credit default swap.
Nonostante siano tutti sicuri di quanto stia per accadere, e i dati siano incontrovertibilmente sulla rotta prevista, il sistema sembra far finta di nulla, mettendoli in difficoltà, ma è solo questione di tempo.
Anticipare i tempi, vedere oltre la semplice superficie delle cose, non credere ciecamente ai dati ufficiali, pensare con la propria testa, leggendo tra le (tante) righe. Quando c’è una visione considerata da tutti irrealizzabile, credere in se stessi può portare ad arrivare sull’orlo del precipizio prima di spiccare il volo (a discapito degli altri, delle ultime ruote del carro), mentre c’è chi regge la candela oltre ogni limite, tanto da passare per stupido o, peggio ancora, per criminale.
La grande scommessa nasce da un libro di Michael Lewis – da un suo altro testo è stato adattato il (fin troppo) fortunato The blind side – gestito da Adam Mckay, regista e sceneggiatore, in maniera semplicemente sorprendente.
I temi sono seri ma affrontati con il passo svelto della commedia, per un film formato crossover, riprendendo un termine più affine al panorama musicale (e anche in questo campo, le scelte, commerciali, seguono la linea congiunturale), inevitabilmente logorroico, ma accompagnato da illustrazioni esterne - Margot Robbie e Selena Gomez ci raccontano qualcosa con esempi estremamente pratici – flash, zoom, sfondamenti della quarta parete, montagne di numeri e tracce dal passato.
In questo modo, prende corpo un dettagliato campo d’azione che manifesta la decadenza del progresso, il silenzio istituzionale per un’economia fondata su prestiti non solvibili (abominio), con posizioni in conflitto ma in pratica d’accordo, l’arrivismo che porta al successo e, dopo il disastro, un deserto deprimente (la sala vuota della Lehman brothers sembra stata appena spazzata via da uno tsunami, non per niente rimane la più grande bancarotta nella storia degli Stati Uniti).
In questo proscenio, i personaggi sono strutturati per completare le prospettive: Michael Burry è l’oracolo, Mark Baum la fibra morale, Ben Rickert rappresenta il pensiero apocalittico e poi c’è chi semplicemente vuole arricchirsi come Jared Vennett e le nuove leve Charlie Geller e Jamie Shipley.
Personaggi che trovano un ventaglio d’interpretazioni in grado di colorirli al meglio: dopo Foxcatcher - Una storia americana, Steve Carell continua a stupire e maturare forbite forme espressive, Christian Bale vola alto con un marchiato eclettismo, Ryan Gosling è audace, Brad Pitt testa una maturità in continua costruzione e il resto dell’imponente cast testimonia l’importanza del progetto ancor prima della sua nascita.
Se il materiale umano è di primissima scelta, a monte di tutto spicca comunque la supervisione di Adam Mckay, un’autentica rivelazione - impossibile scommetterci dopo tante commedie tipicamente americane con la primaria ambizione di far cassetto – che armonizza la narrazione, mentre la fotografia di Barry Ackroyd fornisce specifiche peculiarità a ogni singolo segmento e Hank Corwin al montaggio, taglia e cuce seguendo direttive precise.
Un esemplare lavoro di gruppo che realizza una giostra impazzita, che parte dai tecnicismi, dalla scommessa del fallimento del benessere comune - di suo, uno spregio che dovrebbe far accendere una lampadina – per ricordarci come il vero pericolo non si annidi nelle cose che non conosciamo, bensì in quelle che pensiamo di saper maneggiare, ma di cui in realtà abbiamo una visione parziale (e per il sistema bancario, non è una bella pubblicità, tanto più considerando quanto sia sempre nell’occhio del ciclone).
Incredibilmente interattiva, accessibile e variabile, un’opera che riesce nell’impresa di assumere una fisionomia tutta sua.
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