Regia di Adam McKay vedi scheda film
La truffa dei subprime che fece fallire l’apparentemente solidissimo mercato immobiliare americano è, più che il cuore, l’involucro di un temerario racconto sul trionfo dell’incubo americano. Un argomento che permette di intensificare una travolgente frammentazione modulando la narrazione su più registri: la patina sgranata del finto documentario quando si vuole alludere ad una sorta di intervista (le sequenze iniziali con Chrstian Bale sono pressoché un documentario sulla perfomance di Christian Bale), Ryan Gosling abbronzatissimo ed eccitato che si rivolge allo spettatore per accompagnarlo nell’inferno, la struttura teatrale in tre atti ben definiti dalle citazioni iniziali (Twain e la necessità dell’esperienza, l’allergia alla verità sentita in un bar newyorkese, l’attesa della fine del mondo da Murakami), l’one man show tipico della commedia televisiva che lungamente ha frequentato Adam McKay.
Con una sceneggiatura blindata dallo stesso, sorprendente MacKay con Charles Randolph, La grande scommessa non intende lasciar comprendere tutto ciò che è al centro della scena: gli interessa comunicare, in una prospettiva popolare, l’assurdo di un sistema incomprensibile, reso ancora più incredibile tanto dalla dimestichezza con cui i protagonisti trattano la materia quanto dalla semplicità disarmante di alcune star impegnate a rapportarla alla vita quotidiana (Selena Gomez al tavolo da poker o lo chef Anthony Bourdain che ricicla pesce). A differenza dell’analogo ma tragico Margin Call, qui ne viene fuori una nevrotica satira che è anche una tragedia carnevalesca in cui ogni personaggio è maschera di un dolore nascosto dall’esaltazione di aver scommesso sul fallimento di una nazione. In questo senso, la schizofrenia dello straordinario Steve Carrell è contraddittoriamente il presagio di una tragedia nazionale, il sintomo dell’esigenza dell’umano e l’inevitabile speculazione sul dissesto.
In un mondo come quello hollywoodiano che ormai ha deciso di negare la trasparenza insita al suo statuto classico, il non-visibile è il perturbante, il produttore di angoscia: i soldi di cui parlano i logorroici protagonisti non si vedono mai, sono evocati come assenze demoniache, agognati alla stregua di una maledetta ambizione. L’assenza fattuale dei soldi a Wall Street è una visione alternativa alla dilagante visibilità del denaro in The Wolf of Wall Street, che era un grande film puramente scorsesiano sull’individuo: qui c’è una rivendicazione della comunità degli uomini dagli intenti quasi etici (la famiglia in affitto ad un proprietario che non paga il mutuo, il disprezzo di Brad Pitt nei confronti della finanza) in opposizione all’inquietante evanescenza dell’oggetto del narrare, così significativamente rappresentata dal cammeo di Melissa Leo, una dirigente di un’agenzia di rating che per tre minuti su cinque d’intervento parla con un paio di assurdi occhiali neri. Un film che è anche il risultato del tramonto obamiano presso la persistenza del sogno americano ed è già un tassello nella narrazione di Bernie Sanders.
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