Regia di Nima Beltijeh vedi scheda film
I sogni sono grandi anche se non fanno notizia. Anche se nessuno osa ammettere che sono impossibili. Che la speranza è solo un’illusione. Che il miraggio della salvezza, del benessere, della libertà è una fregatura che non lascia scampo. Babak e sua madre ci hanno creduto. Sono fuggiti dall’Iran ed hanno viaggiato a lungo, Hanno attraversato l’Europa dalla Turchia alla Svezia, per approdare infine in Canada. Qui pensavano di poter rinascere, di assicurarsi un avvenire lontano da un disagio che, dopo la scomparsa del padre, sapeva sempre più di abbandono. Ma nella terra delle infinite opportunità hanno trovato ben poco, e presto se ne dovranno andare. Il lungometraggio di esordio Nima Beltijeh è un racconto casalingo, girato con una videocamera digitale, che si ferma a guardare le persone da vicino, a sentirle parlare, ad aspettare che dicano ciò che provano, ciò che covano nella mente e nel cuore. Ogni scena, povera d’azione, racchiude l’attesa di una piccola rivelazione. Vogliamo sapere se la madre di Babak è davvero felice di aver lasciato il suo paese. Se il figlio di Amir Khan ha tratto profitto dalla ricchezza del padre. E fino a che punto Ali ritiene di aver fallito. Le parole, affiorano, a poco a poco, e mettono a fuoco la situazione. Un’idea alla volta. Un concetto inscatolato in una sequenza, in un breve scambio di battute. Raccontare è un’impresa che richiede pazienza: non è facile tirare fuori la verità, soprattutto quando sono i personaggi i primi a non aver voglia di vedersela girare intorno. Molto meglio restare come figure qualunque, a fluttuare nel vuoto di uno scenario spoglio, tra quattro pareti senza identità, uguali a quelle di mille altre stanze, mille altri locali, dove si sta seduti a fare colazione, si stirano le camicie, si ordinano le pizze e ci si ferma a chiacchierare un po’. Fintanto che gli eventi non accadono, bisogna pure fare qualcosa: perdere tempo a divertirsi, come gli adolescenti delle famiglie agiate, oppure cercare di tirare avanti, come quelli che non hanno santi in paradiso. Il sapore della vita non arriva a lambire quel mondo di rifugiati reali, fasulli o mancati, che formano un gruppo di cui nessuno saprebbe definire il carattere comune, il vero motivo per stare insieme: una squadra di giovani che, in assenza di un passato e di un futuro, si aggrappano senza convinzione ad un presente che sfugge. A dispetto delle teorie sociologiche del momento, i loro problemi non hanno un nome: sono, semplicemente, il tiepido riflesso di un nulla che, dallo straniamento dell’esilio, sa trarre soltanto un senso di inutilità che non conosce sollievo, né nella serietà dell’impegno, né nella frivolezza dell’indolenza. Utopie ritrae la delusione come una condizione anonima, a cui ognuno dà una diversa intonazione, senza però mai uscire dall’insipido spettro del grigio. Un film giustamente monocorde, in cui la disperazione risuona come un’eco appena udibile, prudentemente attutita dalla stanchezza.
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