Regia di Federico Fellini vedi scheda film
Che fanno i vitelloni? Niente. I vitelloni non fanno niente, dalla mattina alla sera. Cosa resta di loro alla fine della giornata? Niente. Cosa ottengono i vitelloni al termine della porzione di vita raccontata in questo spaccato senza tempo? Niente. I vitelloni siamo noi, anche se sembra una frase fatta o priva di ragionevolezza. Non si muovono, non si spingono al di là di ciò che conoscono o credono di conoscere più per abitudine che altro, vivono nell’attesa che qualcosa accada. Non importa come sia, basta che sia qualcosa. Che sia il concorso che elegge la più bella del paesotto (e che segna, al contempo, la fine dell’estate) o il matrimonio dell’amico più mascalzone (che indica la possibilità di una vita diversa dalla comoda e pigra routine quotidiana), l’euforica festa di carnevale che, comunque, all’alba svanisce assieme ai coriandoli portati via dal vento o l’arrivo in città di una compagnia teatrale.
Anche chi coltiva una qualche passione si vede costretto a ripensare alle proprie priorità perché la polvere d’oro che cosparge i nostri idoli resta, flaubertianamente, tra le mani indifese di poveri provinciali poco avvezzi alla vita. E benché tutti vogliano partire, nessuno ha il coraggio di partire, di osare, di vivere. O forse no. Da cosa sono dominati i vitelloni? Dall’immaturità, dall’infantilismo, dall’impossibilità di concepire un futuro che implichi l’impegno. Ma anche dalla solidarietà maschile, dal sostegno anche quando non condividiamo le scelte altrui, dall’amicizia che, in ogni caso, è sempre linfa vitale. Tutti noi, prima o poi, siamo stati vitelloni. Qualcuno c’è rimasto, sonnacchiosamente accomodato sotto il tendone del bar centrale, a mirare il mare d’inverno che s’infrange sulla spiaggia al di là del molo.
Con un naturalismo romanzescamente mediato dalla sacra fantasia, Fellini (ri)costruisce un mondo che conosce bene come lo conosciamo altrettanto bene noi provinciali di tutto il mondo uniti, racconta col gusto di narrare le squallide macchiette di un mondo chiuso nella pigrizia e nel cinismo delle giornate balorde ma tutto sommato di bravi ragazzi. È doveroso ricordare che i vitelloni sono una creazione innanzitutto di Ennio Flaiano, che aveva recuperato un termine dialettale, indicante quei giovani impegnati a non far nulla tutto il dì, tipico della sua vecchia Pescara, cittadina non tanto dissimile dalla Rimini felliniana per conformazione topo-geografica, autore della sceneggiatura assieme a Tullio Pinelli e allo stesso Fellini. Un film imprescindibile ed universale, disperato nonostante il finale, magico nella crudeltà del suo realismo, trascinato dal vento che soffia impetuoso e dal mare che s’infrange alla riva, scorso dalle note evocative del maestro Nino Rota, ricreato in una diffusa e sparpagliata entità territoriale tirrenica (Firenze, Viterbo, Ostia, Roma) che si fa paradigma della provincia adriatica totale (pigra, indolente, calorosa, sprezzante, contraddittoria), abitato da un coro di presenze eterogenee.
I vitelloni sono il tenero Moraldo dai continui “non lo so” (Franco Interlenghi), il maliardo Fausto dal curriculum pieno di ragazze (Franco Fabrizi doppiato da Nino Manfredi), l’infantile Alberto che beve e cazzeggia pur di non pensare (Alberto Sordi immenso: la sequenza dell’ubriachezza post festa è uno degli apici del cinema italiano), l’intellettuale Leopoldo (Leopoldo Trieste) e il canterino ed apparentemente risolto Riccardo (Riccardo Fellini), più la voce fuori campo in prima persona di Riccardo Cucciola che è un po’ portavoce degli autori e “vitellone” fantasma. Che poi diventa tangibile, quando la voce di Moraldo, nel finale, diventa quella di Fellini. Per chi scrive, il capolavoro di Fellini. O perlomeno il suo film più genuino ed intimo fino alla maestosa rielaborazione sentimental-memorialistica di Amarcord.
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