Regia di Federico Fellini vedi scheda film
(rispolvero un'analisi scritta più di mezzo secolo fa...)
L'argomento
Il film è ambientato in un paese di mare, e la vicenda vi si svolge all'epoca stessa in cui viene girato il film. I vitelloni, protagonisti del film, sono giovani dai venti ai trenta anni, di estrazione piccolo-borghese, che passano la vita a bighellonare, giocare a bigliardo e corteggiare donne, rifiutando ogni soluzione di matrimonio o di lavoro, non per una precisa scelta, ma per semplice pigrizia o mancanza di volontà. È la vita che ha vissuto Fellini nella sua giovinezza, nella sua Rimini, da cui il regista, come Moraldo nel film, è fuggito partendo per Roma alla ventura, senza sapere a cosa andava incontro, spinto solo dalla stanchezza per la vita vuota che conduceva. Ancora una volta, dunque, il film è profondamente autobiografico; ma non nel senso di un'espansione lirica, né velato dalla nostalgia per la giovinezza passata: Fellini non ama tornare a Rimini, ed è a Roma che ha trovato la sua vita e che ha potuto realizzarsi nella sua autenticità.
La vita dei vitelloni appare, in questo film, in tutta la sua insulsaggine, costantemente oscillante fra la ricerca di qualche distrazione e l'attesa, inerte e sempre più fatalisticamente rassegnata, di una soluzione sperata, sì, ma non cercata con volontà. Vedremo come emerga dal film questo atteggiamento di autocritica che è costante in Fellini, e come la stessa soluzione scelta a suo tempo dal regista non venga ora proposta come positiva: sarebbe assurdo credere che basti prendere un treno per risolvere i problemi della vita; e soprattutto non è nel carattere di Fellini proporsi come esempio da seguire, bensì solo come caso da meditare, e semmai come errore da non ripetere (ma, anche in tal caso, senza rimorsi, senza giudizio di valore: tutt'al più con bonaria ironia).
Il soggetto
A prima vista, il film sembra la semplice descrizione della vita dei vitelloni, e il soggetto sembra consistere nell'intrecciarsi delle varie storie dei sei giovani. Ma di questi uno, il narratore fuori campo del film, non è neppure presentato; un altro, Riccardo – impersonato da Riccardo Fellini, fratello del regista - non ha storia e pare introdotto dal regista solo per ragioni affettive; Moraldo, sempre presente, non ha però una sua storia: funge un po' da osservatore e da critico, e spesso l'occhio del regista si immedesima col suo (non dimentichiamo l'analogia fra Moraldo e il giovane Fellini); la sua partenza, alla fine del film, se è psicologicamente comprensibile, e tematicamente forse di un certo rilievo (ma vedremo che anche questo va ridimensionato), non è però preparata in precedenza né seguita nelle sue conseguenze, ma semplicemente annunziata dalla voce fuori campo, col tono dimesso di una notizia di cronaca. Infine Alberto e Leopoldo diventano protagonisti, ognuno in un episodio felicissimo ma breve e, quello di Leopoldo, anche abbastanza staccato dal contesto del film; ma non hanno, neppure essi, una vera storia, né un'evoluzione psicologica: entrambi subiscono una crisi amara (le solite crisi -per crollo di ideali - dei personaggi felliniani) ma che non modifica la loro vita, anzi li ripiomba in essa con maggior violenza.
Resta, ultimo, Fausto. La sua vicenda occupa quasi tutto il film; anche i due episodi, apparentemente autonomi, del carnevale (in cui domina la figura di Alberto) e della rivista di varietà (che riguarda soprattutto Leopoldo), hanno una funzione fondamentale nella vita idi Fausto, come occasione rispettivamente per la perdita del posto di lavoro e per la fuga di Sandra.
Il soggetto del film è dunque fornito essenzialmente dalla vicenda di Fausto: un dongiovanni frivolo e volubile che, costretto dal padre a sposare una ragazza -Sandra - che egli ha reso incinta, e quindi anche a trovarsi un lavoro, continua però a corteggiare ogni ragazza o signora che incontra. Questa sua debolezza gli provoca prima la perdita del posto di lavoro, poi la fuga di Sandra, che egli ormai ha imparato ad amare. La scoperta del suo amore per la moglie perduta e poi ritrovata, e le violente busse ricevute dal padre, lo rinsaviscono. Anche se si può ammettere la possibilità di qualche nuova scappata, l'atteggiamento di Fausto è ora decisamente cambiato ed egli appare per la prima volta veramente felice e spontaneo. (È appena il caso di citare qui l'opposta interpretazione data alla vicenda di Fausto da Brunello Rondi: interpretazione che, non appoggiata - né appoggiabile - ad alcuna immagine del film, rende inutile e quasi impossibile una smentita dettagliata: basta guardare il film per convincersene. Del resto, sarà agevole ritrovare la logica della vicenda di Fausto sia nella struttura del film nel suo complesso, sia in numerosi dettagli).
E' evidente, anche solo dal breve sunto che ne abbiamo fatto, la banalità della storia di Fausto; forse proprio per tale banalità, che il film, anziché mascherare, sottolinea costantemente, qualcuno ha voluto trascurarla, come caso particolare della vita dei vitelloni, considerati come protagonisti corali del film (e lo stesso motivo, forse, è alla base dell'errata interpretazione di B. Rondi). Ma proprio tale banalità, così chiaramente voluta, acquista un particolare rilievo tematico; mentre il fatto stesso che la vicenda assuma un peso strutturale così sproporzionato alla sua validità narrativa conferma l'importanza tematica che essa ha (o vuole avere) nel contesto del film, in cui emerge come motivo conduttore, attorno al quale la presenza degli altri vitelloni si riduce ad una funzione corale, di introduzione e di commento prima, di contrappunto poi.
Il racconto: struttura e significati.
La vicenda di Fausto si articola attraverso tre perni fondamentali: il matrimonio coatto, in inizio di film, pone Fausto in una situazione completamente nuova e non voluta, senza però modificarne per nulla l'atteggiamento mentale ed il comportamento; la fuga della moglie Sandra, provocata da un suo nuovo tradimento, gli fa scoprire l'amore che egli ormai prova per lei, e quindi la necessità di rinsavire e di vivere pienamente la sua vita matrimoniale (un fortuito incontro con una "signora" da lui precedentemente corteggiata invano e di cui ora invece proprio lui rifiuta le proposte amichevoli, rende troppo esplicito, didascalico, tale suo mutamento; ma tant'è, Rondi non lo ha capito ugualmente); infine, dopo il ritrovamento di Sandra e la lezione impartitagli dal padre, la piena riconciliazione e i buoni propositi espressi allegramente e con fiducia da Fausto concludono il film.
Attorno alla vicenda di Fausto continua intanto a svolgersi la vita degli amici vitelloni. Fausto ne è dapprima "il capo riconosciuto". Poi, lentamente, se ne allontana: il matrimonio e il lavoro lo costringono a una posizione un po' estranea, che egli stenta ad accettare. La situazione centrale del film, che è anche artisticamente l'episodio più riuscito, la festa del carnevale, costituisce l'ultimo trionfo della vita dei vitelloni ed insieme l'inizio del suo crollo: Alberto, che la domina, esprime, con parole ebbre e soprattutto con felicissime immagini, il vuoto di tutta la loro vita e la necessità di rimediare col matrimonio o con la fuga. Dopo il carnevale, diventa strutturalmente necessaria la crisi successiva di Leopoldo, l'allontanarsi di Moraldo, il mutamento (apparentemente improvviso e dovuto ad una occasionale circostanza narrativa, ma, nella realtà del film, sostanzialmente inevitabile) di Fausto: la seconda parte del film è ormai tutta un inarrestabile tramonto dei vitelloni, condannati a una perpetua e ormai odiosa ripetizione; se ne salva Fausto che esce dai ranghi per accettare finalmente la vita borghese del matrimonio e del lavoro, e forse Moraldo che fugge.
Ne emerge evidentemente un primo semplice significato del film: la condanna della vita vuota dei vitelloni, a tutto vantaggio della tradizionale vita borghese, accettata finalmente da Fausto, e dei suoi ideali. E' forse questo un sentimentale omaggio reso da Fellini alla sua città natale e alla sua famiglia; omaggio che tuttavia può stupire, dopo la decisa deformazione ironica che nel film precedente Fellini aveva fatto della borghesia stessa e dei suoi miti ed ideali: Sandra, che qui diventa l'ideale di Fausto e la sua ancora di salvezza, è lo stesso personaggio che potrebbe essere protagonista della vicenda, tutta alienata, e derisa da Fellini, de Lo sceicco bianco; anche le due attrici impersonano con modi molto simili i due personaggi. Ma proprio la sostanziale identicità di un personaggio visto in prospettive così diverse nei due film indica che non c'è vera contraddizione fra di essi; anzi, ne precisa i significati più veri: la satira del film precedente non era condotta contro i borghesi come classe sociale, bensì contro certe alienazioni e certi miti, e più in generale contro ogni forma di infatuazione mitica assoluta e perciò alienante. L'esaltazione - del resto moderata e spesso accompagnata da bonaria ironia - del mondo borghese, in questo nuovo film, serve per precisare il significato di quello precedente, e nasce da una diversa prospettiva e dal confronto con una vita ben più squallida.
La stessa banalità della vicenda, che abbiamo rilevato, e la ripetizione fedele della figura di Sandra da quella di Wanda, da cui differisce solo per la funzione strutturalmente positiva che essa è chiamata ad assolvere, ma di cui conserva la mentalità da fotoromanzo, dovrebbe servire a dimostrare che in qualunque modo di vita e con qualunque mentalità è possibile una realizzazione autentica.
"Dovrebbe": ma poiché Fellini non ha ancora raggiunto la maturità di Giulietta degli spiriti, le intenzioni restano tali. Anche tematicamente (oltre che esteticamente) il film rischia ulteriori travisamenti per il fatto di confondere la vita autentica con la vita "etica" borghese. Confusione utile, come si è detto, per correggere eventuali interpretazioni errate del film precedente, ma che potrebbe generarne altre. Questo però è un limite più profondo e più comprensibile: sarà anzi, a lungo, il maggior limite della produzione felliniana, come vedremo, quello di cercare di rappresentare una vita "autentica" e di rischiare continuamente di darci solo una vita "etica".
Piuttosto, c'è un personaggio del film - primo di tante figure emblematiche, così care a Fellini - che ne addita in una direzione diversa (almeno in parte) l'ideale di vita: Guido, il piccolo ferroviere così sereno e saggio, che sa godere con gioia spontanea di ogni incontro, e del suo stesso lavoro (in modo fin troppo didascalico), in conclusione del film. Anch'egli addita la gioia semplice di una modesta vita di lavoro, questa volta non più "borghese", bensì "proletaria".
Ma abbiamo già visto che per Fellini la distinzione può avere un rilievo emotivo, non tematico. Anche la figura di Guido ottiene risultati estetici discutibili; ma tematicamente essa indica già meglio di quanto non faccia la vicenda di Fausto e Sandra la possibilità (che abbiamo già visto essere fondamentale in Fellini) di realizzare in qualunque circostanza una vita autentica, e l’indicazione di questa nell'atteggiamento di costante accettazione ottimistica di ogni fatto della vita. La formulazione ne è ancora ingenua, semplicistica (manca, per esempio, la contemplazione del dolore, e della lotta necessaria per superarlo, che sarà di Giulietta) e vaga (non si precisa ancora in quell'atteggiamento, che Fellini chiamerà "spirituale", e che tenterà, ancora invano, di precisare ne La strada, di superiore contemplazione del mondo): proprio perchè non è possibile distinguere in modo netto, in arte, l'enunciazione di una concezione del mondo dalla sua espressione artistica: l'ambiguità di quella comporta una debolezza di questa, e viceversa. Ma in un'analisi critica, tra le tante distinzioni artificiose, è utile fare anche questa: così possiamo dire che, in questo film, ad un relativo progresso tematico corrisponde un cedimento artistico, come poi (in misura estremamente maggiore, sia questo sia quello) ne Il bidone; mentre La strada., intermedio fra i due, presenta il caso opposto, di numerose incertezze tematiche (dovute, però, a tentativi di approfondimento ben maggiori di quelli di questo film) felicemente superate nell'espressione artistica. Si noti comunque come già ne I vitelloni si possa intravedere, a livello tematico, quella tripartizione che poi emergerà ne La strada e che col tempo diventerà sempre più rilevante, tra vita estetica (dei vitelloni), vita "etica" (di Fausto e Sandra, nella conclusione del film; e delle varie famiglie "borghesi") e vita "spirituale" (suggerita dal piccolo ferroviere, e forse anche dall'idiota Giudizio: anticipando quell'idea, che poi domina La strada, che la spiritualità è possibile anche a livelli mentali bassissimi. Ma si tratta di spiritualità vaga e distorta, e verrà presto superata).
Il breve dialogo finale (troppo didascalico) tra Guido e Moraldo costituisce anche una precisa critica alla fuga di Moraldo, e pertanto nega chiaramente quella soluzione che molti lettori hanno voluto veder proposta al problema esistenziale dei vitelloni: non è fuggendo per Roma che essi possono imparare a vivere (se Fellini vi è riuscito - ammesso che vi sia riuscito - sarà per circostanze o per doti sue particolari; e forse soprattutto per l'influsso benefico che ebbe su di lui l'incontro con la viva e aperta umanità della signora Masina); così come non è con la fuga, bensì con una accettazione coraggiosa della propria vita, che si può risolvere qualunque problema esistenziale. Se poi ricordiamo il film precedente e la stessa immagine mitica e falsa che di Roma hanno i vitelloni (Roma è soprattutto un nuovo ballo, nel ricordo di Fausto al ritorno dal viaggio di nozze), possiamo esser certi del tono ironico - sia pur bonariamente - con cui Fellini guarda alla fuga di Moraldo.
Analisi critica
Dal punto di vista estetico risulta validissima la descrizione dei vitelloni colti nelle loro alienazioni, nella loro noia, e poi nelle loro delusioni, con una precisione e profondità di osservazione che prosegue sulla linea delle pagine migliori de Lo sceicco bianco. Giustamente, dopo questo film, Fellini per qualche tempo ridurrà al minimo le parti corali, o da "affresco" (già sapientemente realizzate fin d'ora), per approfondire la descrizione delle singole psicologie o il rapporto fra i personaggi, per prepararsi a cogliere con sicurezza non solo le alienazioni, ma anche (poi anche attraverso quelle ed in quelle) la vita autentica.
Scadente è invece proprio la storia centrale, della vicenda di Fausto e di Sandra, di un sentimentalismo troppo facile, che spesso cade del retorico e che comunque resta sempre banale: il tradimento di Fausto, l'elezione di Sandra, il suo svenimento, le reazioni della madre, la fuga di Fausto, ecc. ecc., fatti banali che il regista non riesce a redimere né attraverso l'ironia (che pur c'è, ma insufficiente) né mediante una resa cinematografica che li imponga poeticamente: cosa, certo, non facile, ma che pure era già riuscita meglio, in certe momenti, ne Lo sceicco bianco, nonostante il tono farsesco del film, o forse proprio grazie ad esso; anche ne I vitelloni è più autentico e vivo il dolore di Leopoldo, nel momento della sua crisi, che non quelli di Sandra o di Fausto, proprio perché colto attraverso il comico, con un procedimento in cui Fellini si rivela fin dall'inizio un maestro.
Perciò non è la compresenza di ironia e di sentimento a render debole la vicenda centrale del film, bensì proprio l'insufficienza dell'una e dell'altra. L'insufficienza della partecipazione sentimentale nasce dalla storia stessa: Fellini stesso, in 8½, ammetterà di non saper raccontare una storia d'amore; e ciò, se è un limite del film, diventa premessa per un'impostazione superiore della positività, che non verrà più cercata in un semplice rapporto d'amore, bensì, come deve essere, in un intimo atteggiamento di fronte alla vita (e solo in questo senso anche di fronte al prossimo).
Per quel che riguarda l'ironia, invece, essa riesce ottima (in generale) nella descrizione dei vitelloni; e nel complesso è buona, anche (ma ad un livello minore, di "pittura di genere", di scenette borghesi tipiche: secondo una delle tante illuminanti analogie con Bosch , che come Fellini ha iniziato la sua attività su toni minori, in modesti ma riuscitissimi quadretti di vita borghese) , nei personaggi minori, delle varie famiglie borghesi. Invece è spesso assente nelle figure di Fausto e di Sandra, ed anche di Moraldo: ciò nasce forse da incapacità degli attori (ma ben presto Fellini saprà far rendere superlativamente anche attori scadenti o non professionisti); soprattutto nasce dal fatto che - non sapendo rendere autentica una storia d'amore - Fellini non può calcare la mano sui suoi protagonisti per non far perdere del tutto la loro funzione di contrappunto, almeno relativamente positivo, alla vita dei vitelloni. Infatti, in questo senso, questi sono già fin troppo derisi: come si può riconoscere la possibilità di una realizzazione autentica in quella testa vuota di Fausto? È storicamente precisa, la sua stupidità, così come la vuota bambolaggine di Sandra, allora diffusissima nell’idolatria dei tanti idoli dello schermo e degli infiniti loro imitatori di provincia. Molto più facile trovare la luce della spiritualità nella "testa di carciofo" di Gelsomina.
Tuttavia può essere che i limiti, pur indiscutibili, della vicenda di Fausto (e quindi anche del film, che è strutturato attorno ad essa), siano inferiori a ciò che può sembrare oggi; e già oggi, a distanza di venti anni, sono meno accentuati che non qualche anno fa, perchè, agli intrinseci limiti d'arte si sovrappongono elementi di gusto, che oggi impediscono di ammettere qualunque possibilità positiva in quelle squallide figure di cui è ancora vivo il ricordo e che ancora oggi il fotoromanzo e perfino la televisione o certo cinema propina, in forme non molto diverse, ad un pubblico ancora vasto. Il fastidio che proviamo ora è perciò, forse, per ragioni storiche ("morali", e non artistiche), maggiore di quanto il protagonista non meriti. Resta comunque il fatto che la sua storia, ponendo costantemente in rilievo la sua insulsaggine, il suo vuoto interiore (e non solo le sue alienazioni) ed il sentimentalismo stereotipo di Sandra, privo di ogni vitalità, non giustifica né psicologicamente né artisticamente il mutamento finale e la conclusione ottimistica. È illuminante il confronto con Giulietta degli spiriti, in cui dalla stessa impostazione sentimentale arriverà con rigorosa necessità artistica la salvezza finale.
Comunque l'esito ottimistico del film trova una sua parziale giustificazione artistica, estranea alla vicenda di Fausto ma intrinseca alla struttura complessiva del film, nella graduale e inesorabile presa di coscienza del vuoto dei vitelloni. Da questo lato il film può dirsi veramente riuscito, non solo per la descrizione dei vitelloni (la solita felicità di Fellini nel cogliere con esattezza il carattere comportamentale della società in ogni momento), ma soprattutto per la sapienza strutturale con cui esso è impostato: i primi quadri dei vitelloni fanno da premessa e da sfondo alla storia di Fausto, mentre il loro annoiato vagabondare durante il viaggio di nozze del protagonista sostituisce ottimamente il flash-back, nel presentare quella chefino a pochi giorni prima era stata anche la vita di quello. Dopo, essa coglie l'addensarsi dei sintomi di crisi, ed infine lo stesso riconoscimento di tale crisi da parte di Alberto e di Leopoldo, rendendo strutturalmente necessaria (anche se, ripeto, resta psicologicamente arbitraria) l'evoluzione della vicenda di Fausto. Infine, durante tale evoluzione, esso costituisce ancora un felicissimo contrappunto, che servirà anche ad attenuare un po’ il sapore dolciastro delle immagini di Fausto e di Moraldo.
Perciò, ripeto, è comprensibile, anche se del tutto ingiustificato, il concentrare l'attenzione sul quadro dei vitelloni - che è l'unico artisticamente riuscito - trascurando o rifiutando la centralità della vicenda di Fausto, che è sostanzialmente fallita: ma ciò (a parte il fatto che non è obiettivamente possibile) significa privare ancora il film di tutta la sua sapiente impostazione strutturale. La quale, va anche notato, rivela già, sotto l'apparente libertà quasi caotica che è tipica di Fellini, l'usuale rigore stilistico, in simmetrie mai artificiose ma sempre precise: si veda, per esempio, la prima e l'ultima scena: in quella c'è dapprima la presentazione rapida, guidata dalla voce fuori campo, dei vitelloni,poi di Fausto, nel suo primo tradimento, di sera ... ecc.; in questa, il ravvedimento di Fausto, ancora di sera, commentato alla fine - come già il tradimento all'inizio - dalla voce f.c., che poi passa a presentare un'ultima volta, rapidamente, gli altri vitelloni. Il lettore potrà facilmente rilevare ulteriori simmetrie e parallelismi tra i singoli episodi; e nell'analisi dettagliata che segue potrà essere utile richiamarne alcuni; anche se essi, qui, non hanno quel rilievo tematico che assumeranno in alcuni film successivi.
I vitelloni è in sostanza un'apologia del lavoro e del matrimonio, pur nella loro banalità. E' il film meno sferzante di Fellini, privo come è di aperture polemiche o liriche: c'è la critica del mondo vuoto dei vitelloni, ma è una critica emotiva, figurativa, impostata sull'elogio della tradizione: chi ci fa bella figura sono i "padri", la situazione vecchia; il piccolo ferroviere è in sostanza emblema dell'accettazione, socialmente passiva, anche se vivificata dall’entusiasmo giovanile, che però, appunto, non nasce da nuove proposte, ma solo dal mettere entusiasmo e serenità anche nella meschinità del lavoro tradizionale; non si sente l'ingiustizia che costringe un povero ragazzino a lavorare fin dal mattino presto, e a rinunciare allo studio, alle conoscenze che pur lo affascinano; anzi, proprio in questa ingiusta (ma, ripeto, non presentata come tale) posizione lavorativa è possibile trovare la serenità della vita. È vero che la vita può essere bella e viva, e va accettata nel suo valore profondo, anche nelle situazioni più spiacevoli; ma tale tema resta assolutamente secondario, non propone un dramma di tale accettazione né apre prospettive positive.
La soluzione alla storia di Fausto, la principale nel film, quella del "capo" riconosciuto dei vitelloni, l'unica che presenta un lieto fine abbastanza convinto nonostante qualche riserva ("la storia di Fausto e Sandrina, per ora, finisce qui"...) - è d'una banalità impressionante, in sé e nel modo in cui è condotta; l’unico significato che se ne può trarre è quanto mai conservatore: "Padri, picchiate il vostro figlio fannullone, costringetelo a sposare contro voglia la donna che ha messo incinta, frustatelo affinché le sia fedele e si cerchi un lavoro da commesso, e neavrete la sua gratitudine, perché lui stesso troverà in ciò la sua felicità".
Girato diversamente, potrebbe anche essere un tema positivo, come volontà di accettazione della vita nella sua banalità e di riconoscimento della felicità o della luce proprio nella stessa banalità. Ma qui non c'è tale esigenza in Fausto, né viene posta in alcun modo nel film. Da una parte il ferroviere, bambino già troppo uomo, viene posto in modo troppo sentimentale e irrazionale a esempio di vita da imitare; d'altra parte Fausto, uomo ancora troppo bambino, viene instradato a forza sulla strada proposta da tale esempio.
La fuga di Moraldo è troppo poco, e troppo vaga, e del resto criticata dal ferroviere a cui vanno le simpatie, anche figurative, del regista e dello spettatore, per poter essere una proposta di alternativa diversa oltre a quelle della nullità dei vitelloni o della banalità del lavoro. Sembra solo un compiaciuto ricordo di ciò che l'autore stesso ha fatto nel passato, ma assolutamente non una proposta per gli altri: tanto più che tutto il film, come ho detto, suona ad elogio del lavoro tradizionale.
L’unica figura ribelle, Olga, la sorella di Alberto che fugge conun uomo sposato, appare (forse contro la stessa volontà del regista, che non arriva a caricarla ironicamente secondo i suoi gusti) ridicola solo per il peso dei pochi anni che ci separano dalla realizzazione del film: sa di fumetto, ricorda come figura quella di Wanda, ma con ben altra presentazione da parte del regista: non c'è, in Olga, né la partecipazione sentimentale per un dramma di donna innamorata che arriva ad abbandonare la famiglia e a ribellarsi alla morale tradizionale per amore, né la deformazione ironica di chi, imbevuta di sentimentalismo da fumetti, butta la propria vita per una passione senza senso (eppure l'uomo amato appare proprio solo un gaglioffo insipido privo di ogni attrazione, visto con felice precisione ironica).
Quanto diversa, anche sotto questo aspetto, la posizione de Lo Sceicco bianco, dove la critica al mondo alienante dei fumetti - altrettanto sferzante quanto questa al mondo dei vitelloni - è affiancata a quella del conservatore mondo borghese, e pertanto rinuncia al convenzionale lieto fine, non solo, ma lo tronca ironicamente, indicando la ricaduta nel mito di entrambi i protagonisti. Qui Fellini sembra aver avuto paura di sferzar troppo (del resto non erano ancora tempi di aperta contestazione al sistema, e Fellini, che ha più interessi artistici fine a se stessi, o quasi, che non impegni sociali, non voleva forse pregiudicare la sua carriera di regista puro per condurre avanti una polemica sociale che nel suo mondo ha solo una posizione periferica).
Ma questa posizione di compromesso con la tradizione e di controllo nella deformazione critica ha avuto un suo riflesso proprio nella riuscita artistica del film, che, non sentito nella sua sostanza (o, almeno, sentito solo emotivamente con una parte del cuore del regista, e non dalla sua totalità: ricordo forse dei propri genitori, e critica della sua stessa vita giovanile, che non ama più e che disapprova; ma senza poter scorgere nei vitelloni un cenno positivo di ribellione, e senza, d'altra parte, una possibilità di adesione totale al mondo sclerotico dei padri, privo di spiritualità autentica e di seria possibilità di sviluppo, e perciò ridotto a funzione di simpatica macchietta di colore, troppo debole per assumere una funzione di protagonista, o di antagonista, in un dramma) finisce per suonare quasi ambigua, coi suoi vari drammi non delineati perché secondari alla struttura del film: quello di Olga, totalmente banalizzato; quelli di Alberto e di Leopoldo, ridotti a facili gag, sia pure di felicissima resa artistica; quello infine di Sandrina e di Fausto, che predomina nel film, come si è visto, ma che viene risolto senza realizzarsi veramente come dramma, proprio perchè nessuna delle due posizioni (Fausto-vitellone e Sandra-tradizione) assume una caratterizzazione chiara.
Ciò non significa che nel film manchino gli episodifelici, sia nella deformazione critica dell'alienazione, sia anche nella realizzazione dell'autenticità. Quest'ultima, come sempre in Fellini, in funzione di contrappunto e cronologicamente ridotta a pochissimo, qui a poche immagini del ferroviere, di cui però le prime due un po' facili; la terza, magnifica in sé (il ragazzino che, salutato l'amico Moraldo, torna spensierato e felice al suo lavoro, giocando a camminare in equilibrio sulle rotaie del treno), nonostante la sua posizione eccessivamente emblematica, messa come è a finale del film.
Altre figure che forse avrebbero dovuto essere realizzazioni di autenticità, ma che riescono spesso melense, o ridotte a macchiette, sono:
- la prostituta, molto meno riuscita da quelle de Lo sceicco bianco.
- il sig. Michele e la moglie: lei, riuscitissima solo durante il ballo (ma qui, cosa non è riuscito?); lui, più simpatico, ma in modo ancora facile, nel finale abbastanza felice della storia di Fausto, riesce ottimamente solo nel bel trapasso dalla calma all'indignazione durante il licenziamento, o prima, durante il dialogo col suocero di Fausto, dove però entrambi sono, finalmente, derisi con decisione.
- Giudizio: i matti e gli strambi riescono sempre bene a Fellini.
- il padre di Fausto, che scivola costantemente nel retorico senza convincere.
Il maggior merito ed il maggior limite del film sta proprio in questa ambigua posizione di contrappunti, che non sono mai totalmente positivi e che perciò riportano (ma dall'esterno) una certa positività sui vitelloni, che ad essi si oppongono: positività che non emerge ancora - se non, a volte, nel carnevale - da un recupero delle
alienazioni come essenziali alla vita, ma solo dal fatto che anche negli altri modi di vita, che essi non accettano, c'è alienazione o comunque insufficiente positività. Ma non c'è affatto quella "simpatia istintiva che l'autore prova per i propri personaggi, simpatia in senso psicologico e umano e non in senso creativo": questa simpatia è ormai definitivamente superata (se mai c'è stata, nell'uomo Fellini) e semmai va lamentato il fatto che troppo raramente la critica venga a sua volta superata da una superiore simpatia, che a partire da La dolce vitasarà tipica diFellini.
All'inizio, l'alienazione collettiva al Kursall ha momenti felici (la pioggia, la piazza rimasta deserta e l'accalcarsi della gente che suona e balla all'interno; l'assedio delle amiche attorno a Sandra; forse anche l'allontanarsi e il disperdersi di Fausto fra la folla, dopo che Sandra è rinvenuta), anche se non ancora vigorosi come in seguito, né come rappresentazione oggettiva (sarà più graffiante l'episodio della rivista di varietà) né come abilità di montaggio e di narrazione (che resta impostata a semplici quadri successivi, secondo una facile successione narrativa).
Sia la vicenda dei due, sia la figura del padre, simpatico uomo serio, all'antica, che lavora per il figlio sfaticato e che tira su la piccola figlia orfana di madre, sono ripresi dalla peggiore vena neorealistica: ed in questa rientra la resa figurativa di tutta la sequenza in casa di Fausto, come tante altre del film. Evidentemente Fellini fatica a liberarsi dal neorealismo: interni di sera, scuri, con frange di luci alternate alle ombre, e le figure al centro del ritaglio luminoso e colte dalla vita - da un certo tipo di vita - che riesce spesse poco convincente nella ricostruzione artificiosamente documentaria.
Ogni volta Fellini introduce delle note personali, come qui l’ottimo schieramento degli amici, fuori, lungo un muro della strada; ma è breve, e figurativamente anche questo canonico, sebbene l'immagine sprigioni un senso d'alienazione esistenziale nuova; e subito ricade nel melodrammatico, con il porsi in primo piano di Moraldo, il tenero fratello di Sandrina, e con il dialogo che segue. Solo di fronte alla banalità della situazione il padre riceve una sua luce simpatica bonariamente ironica e di affettuosa stima, figura riuscita rispetto alle altre, più banali. Non dico che non ci siano altre osservazioni simpatiche, psicologicamente "vere" (del resto tutto è "vero", ma banalmente vero, ovvio, inutile): l'ultima sigaretta offerta da Fausto a Moraldo, per accattivarselo, o la frase del padre che pensa al padre di Sandra ("è un galantuomo come me"), o infine la risata finale del gruppo di amici; ma sono trovate da Castellani, come da Castellani è ripreso certo miele che addolcisce ancora la scena: l'ingenuo e fiducioso Moraldo, o l'intervento della bimba, con cui il padre si raddolcisce, o la frase finale, che nonostante la sua componente ironica (rilevata dal mammismo esasperato di Alberto, in seguito deriso), qui suona solo patetica. Non nego che intervenga una questione attuale di gusto, nel condannare; ma ad un gusto diverso potrà disturbare meno, non mai piacere, perchè la resa artistica è estremamente debole.
Ottima, invece, per l'immediata successione del montaggio a questa scena, la carrellata in chiesa, sui volti commossi dei parenti di Sandra, che sventolano fazzoletti bianchi per raccogliere le lacrime. Ottimo però solo il movimento di macchina, dai parenti a Moraldo, da questo - che accompagna con lo sguardo - al canto di Riccardo, per tornare giù agli sposi e poi al prete che fa la predica convenzionale. Ma anche qui la sostanza è ovvia, e resta ovvia anche la derisione, condotta nei limiti dell'usuale bonaria satira di costume del neorealismo di allora; neppure l'abilità di Alberto Sordi riesce a rendere graffiante la scena.
Lo stesso discorso vale per la partenza degli sposi, in cui si può rilevare solo una buona inquadratura del treno, in prospettiva accentuata dal fatto che l'obiettivo è molto vicino al treno stesso, che perciò appare lunghissimo e proiettato verso l'infinito, per cui i due sposi affacciati al finestrino appaiono in partenza per un mondo di sogno, tipico del viaggio di nozze... Come contenuto, si potrebbe ripetere il discorso fatto sul facile sentimentalismo e sulla facile ironia; ma qui il taglio dell'inquadratura è particolarmente felice.
Felice, ancora una volta, il passaggio alla scena successiva: sul bigliardo, dinnanzi al quale il primo piano di Antonio, il cameriere assonnato, esprime la noia stessa dei vitelloni. Ho già detto dell'efficacia strutturale di questi quadri dei vitelloni, fra la partenza e il ritorno di Fausto, che assolvono molto bene la funzione di un flash-back, che come tale sarebbe banale e di gusto ormai superato (ma non lo era nel 1953).
Al bar la bravura di Sordi e di Trieste sollevano la scena a livelli buoni (ottimi per il film); ancor migliore poi la passeggiata notturna, perchè affidata alla resa figurativa e non solo alla bravura dei due attori (che però anche attorno al bigliardo sono sfruttati abilmente, con discreta inventiva anche narrativa e con preciso ritmo di montaggio delle inquadrature dai P.P. di Leopoldo ai C.L., ai C.T. e C.M. su Alberto, alternati ad altre di Moraldo, del cameriere ecc.) E' il girovagare vano dei vitelloni, in attesa che il tempo passi, ma senza aspettarsi nulla di preciso. Solo col carnevale tale mondo apparirà in crisi ai protagonisti (ad Alberto, che se ne fa espressione). Ora è solo descritto, ma efficacemente, ed è già implicita nella descrizione la condanna che poi ne darà Alberto.
Il tono si fa invece totalmente piatto nel successivo passaggio, introdotto dalla voce f.c., alla presentazione dei vari rientri a casa complessivamente banali, anche se qualche inquadratura (dall'alto, sulle finestre ad angolo di Leopoldo e della vicina servetta) e qualche osservazione (il mammismo di Alberto, ancora superficiale, ma utile per gli sviluppi successivi) si salvano; ma si "salvano" soltanto. Scadente l'incontro di Moraldo con Mino, il piccolo ferroviere, perchè troppo didascalico e insistito - (qui davvero si può sottoscrivere l'accusa di Aristarco, che si richiama alla "poetica del fanciullino" di Pascoli; ma solo qui).
Al mattino, l'incontro di Alberto con la sorella esprime in modo facile il costante bisogno di soldi dei vitelloni (ripetuto subito dopo da Riccardo al molo: "se adesso venisse un signore che ti desse 10.000 lire, lo faresti il bagno ? Io sì"; poi dal furto di Fausto e Moraldo, dalle sigarette sempre mancanti ecc. ) e degli "affetti famigliari" generici di Alberto, ma un po' di tutti ("Hai lavorato tutta la notte"...); e ancora preparazione alla successiva vicenda di Olga. C'è la polivalenza espressiva e funzionale, ma facile sotto ogni aspetto.
Meglio al molo; anzi, questa è una delle sequenze migliori, nel suo alternare le alienazioni dei vitelloni ad un momento della ricerca di Olga, il "dolore" di Alberto all'inserirsi degli estranei nell'intimità di una persona, anche per vincere la noia, a sua volta ben espressa prima, al molo: le rapide inquadrature diverse sui vari personaggi, il loro vagare annoiato, dispersi nella vastità dello spazio di quelle inquadrature, in C.C.L.; soprattutto un'ottima inquadratura con il P.P. di una rete metallica, che subito dopo farà da sfondo ad Olga ed al suo uomo; l'arrivo del cane, con cui Alberto gioca per passare il tempo, e che lo conduce per caso a sorprendere la sorella; le strutture geometriche delle cabine di sfondo ad Alberto come la rete ad Olga; l'incerto assistere degli amici, che non osano né andarsene né restare. La storia di Olga, in sé banale e sulla linea del neorealismo sentimentale di cui si è detto, è però sempre efficace perchè mai vista in sé, m sempre solo nella prospettiva di Alberto, o nelle parole indifferenti degli amici (qui involontari spettatori; poi Fausto che due volte la sfrutta, col padrone del negozio e poi per rinfacciarla ad Alberto che lo rimprovera per la fuga di Sandra). Ne escono immagini ottime, in cui poco disturba (ma un po' sì) il sentimentalismo della vicenda in se stessa.
Il successivo incontro a casa è più banale, perchè più centrato sul patetico. Ma ancora una volta è felicemente salvato dall'istrionismo di Sordi ("Se fai piangere mamma ..."). Subito commentato dal solito montaggio per accostamenti crudeli: in pieno sole, Alberto spaparanzato sulla sedia davanti al bar, ad aspettare che il tempo passi. Ed è passato: Fausto ritorna.
La sequenza, breve, ma felicissima, continua, dopo il breve cenno alla superficialità di Alberto ed al suo aspetto velleitario, con l'arrivo di Fausto ed il mambo che egli balla, alla Fred Astaire, in mezzo alla strada, prima solo poi in coppia con Alberto; mentre Sandra lo guarda ammirata e orgogliosa: è decisamente la sposina de Lo sceicco bianco, tornata tutta dedita al marito; mentre lui è rimasto vitellone dalla testa ai piedi.
Tanto che la solita voce f.c. (quel sesto vitellone che è appena apparso qualche volta, come proprio ora, senza alcun peso) banalmente commenta "e tutto sarebbe continuato come prima, se al suocero di Fausto non fosse venuta una strana idea". La macchina commenta un po' ironicamente (abbastanza bene, ma diventano alla lunga un po' facili, questi passaggi di sequenza sempre uguali) quella strana idea, di mettere Fausto al lavoro nel negozietto di articoli sacri. Sarà proprio questa idea l'inizio, per non far "continuare tutto come prima". Ma intanto il film continua senza cesure, e ancora ottimamente (sempre rispetto al livello del film) con la presentazione del negozio, l'incontro fra i due vecchi amici - condotto sul classico livello convenzionale - , la vestizione di Fausto, l'inizio del lavoro, la vita in negozio. Anche qui non ci sarebbe nulla di rilievo; ma tutto è sollevato dall'ottimo commento figurativo fornito dal negozio stesso, zeppo di articoli sacri schierati in bell'ordine, a far nostra di sé dietro al compiacimento del padrone ed all'ammirazione del suocero di Fausto, ma anche ad opprimere Fausto nel suo inserimento nel mondo del lavoro; e così uniformemente ben disposti, a sottolineare la noia, l'immobilità di quella vita.
A questo punto, con l'inizio coatto della vita borghese di Fausto, inizia il secondo nucleo narrativo; mentre nella vicenda ciò accade al momento stesso dell'inizio del film, quando cioè Fausto è costretto a sposare Sandra: altra conferma di quanto ho già detto, che tutta la parte descrittiva dei vitelloni durante l'assenza di Fausto si presenta come flash back sulla precedente vita di lui e perciò rientra in una prima parte narrativa, posta idealmente a monte del matrimonio. La terza parte, poi, inizierà, come abbiano detto, con la fuga di Sandra, anche se (altra felice simmetria con il modo eccezionale di presentazione della prima parte, idealmente antecedente l'inizio del film) essa idealmente dovrebbe iniziare a film concluso, con la rappacificazione, su nuove basi, dei due sposi. Abbiamo già visto come la struttura del film si complichi per la presenza dei vitelloni. Questa incide soprattutto in questa seconda parte, che è scandita in due episodi della vita di Fausto alternata a due quadri dei vitelloni: quelli (soprattutto il secondo, del furto dell'angelo) si presentano come esemplificazioni del vitellonismo (il furto dell'angelo è estraneo al racconto, e si presenta solo come documento, poco significativo, di uno dei pochi modi con cui i giovani provinciali vincevano la noia), mentre il carnevale e la rivista si inseriscono nella vicenda di Fausto con un rilievo narrativo notevole ma estrinseco, e con un'incidenza tematica più essenziale, di cui già si è detto.
Anche il convergere degli amici davanti alla vetrina del negozio trova la sua giustificazione in questo porsi nella doppia prospettiva, di quadro dei vitelloni e di momento della vita e della psicologia di Fausto, e soprattutto nella doppia ambivalenza, per cui da ognuno dei due punti di vista è deriso il vuoto di una vita come dell'altra, e insieme è visto con qualche simpatia ognuno dei due poli in quanto opposto alle alienazioni dell’altro. Questo accade raramente nel film, ma forse vorrebbe costituirne il senso più profondo. Più fastidioso, anche qui, il sentimentalismo di Moraldo, nonostante un sospetto di ironia che sembra emergere a volte nei suoi confronti e che pare confermato proprio dal dialogo finale col ferroviere; ma è ancora troppo poco.
Ovvio l'incontro di Sandra con le amiche: ma è già nello stile di Fellini, che riesce ad essere crudele con le persone, proprio osservandole esattamente come sono.
Il successivo incontro con Fausto, sempre patetico, riesce però questa volta più efficace proprio grazie all'esagerazione ironica degli elementi patetici e infantili: Sandra, rattristata dalle amiche, si illumina solo a vedere il marito, e questi è orgoglioso del suo primo giorno di lavoro (la statua venduta, la chiusura della serranda ...): è un po' meglio del solito… ma sempre sulla linea di Castellani. Solo il fatto che il regista sia Fellini, altrove sicuramente artista, mi fa dubitare (e sperare) che questa mia critica sia dettata da questioni di gusto e che in futuro venga superata…
L'episodio successivo, del tentativo di Fausto con la "signora" incontrata al cinema, non solo è ovvio e inutile, nonostante la discreta caratterizzazione della signora, ma serve a definire bene quanto, in questo film, c'è di regresso rispetto al precedente: anche Sandra, come Wanda, è così presa, qui, dal film (mito provinciale abbastanza diffuso allora) da perdere almeno per un momento il contatto con la realtà: fonde il sogno cinematografico con il suo amore per Fausto, ma non vede e non nota nulla, neppure quando questi esce dietro alla donna. Eppure Fellini continua a proporne la figura come positiva: il che, tematicamente, potrebbe essere un opportuno chiarimento, come abbiamo già notato; ma in pratica essa è così scialba e sciocca da riuscire fastidiosa: non è possibile (almeno ora) accettarla come positiva. E Fausto, a sua volta, è altrettanto sciocco e infantile; e resta tale anche nel "rinsavimento" finale.
Appena migliore, il pianto ed il successivo rappacificamento; ma sempre anonimo: sono forse progressi nella direzione del "neorealismo borghese"; ma è tale stile in sé che è debole, di poche pretese, e poco congeniale a Fellini. La cosa migliore è sempre il montaggio: qui, il passaggio al negozio del barbiere. Deboli e inutili le brevi immagini del padre e della sorella di Fausto davanti al negozio; e di Leopoldo, col pizzo, alla finestra.
Segue il carnevale, narrativamente solo giustapposto, ed artificiosamente legato dal solito commento f.c., sempre inutile. E' indubbiamente, nell'insieme, uno degli episodi migliori - forse proprio perché estraneo alla storia di Fausto, cui si riallaccia solo indirettamente, come occasione di un nuovo tradimento, o genericamente, in quanto denuncia la crisi del mondo dei vitelloni - . Tale denuncia è figurativa, narrativa, di ritmo, di montaggio; e dalla perfettamente riuscita figura di Alberto all'immagine visiva delle alienazioni, in maschere, stelle filanti, luci, confusione, spensieratezza o indifferenza reciproca; dalla Musica, soprattutto nella seconda parte, con quella fortissima tromba, al vario, inutile, scomposto alternarsi dei personaggi.
Scandito, all'inizio e alla fine, dalla vicenda sentimentale di Olga, vicenda salvata dal patetico, od a tratti quasi commossa (se solo ci fosse una miglior recitazione delle attrici che impersonano Olga e la madre), grazie alla vigorosa recitazione di Alberto, che ne attenua le punte dolciastre e lacrimevoli con la sua sostanziale indifferenza, rotta solo dalla preoccupazione del denaro che gli dava Olga.
Notevole l'alternarsi dei vari amici, da Leopoldo a Riccardo (quel bacio sul collo, implorato e concesso come un prezioso dono nei segreti della soffitta); e soprattutto l'ultimo passaggio, dall'alto alla sala quasi vuota, in cui la tromba rauca celebra il funerale del carnevale attorno ad Alberto ubriaco, che fa smorfie ad un mascherone e se ne trascina dietro un altro. Ottimo ancora, anche se un po' didascalico (fortuna che è fatto da Sordi), lo sproloquio sulla realtà dei vitelloni, proprio nel vuoto della piazza, al termine della baraonda, ed il doloroso risveglio sulla partenza di Olga. Ma anche questa sembra un po' anonima: se la festa del carnevale, e soprattutto la sua conclusione, è tutta felliniana, la partenza di Olga potrebbe essere firmata da qualunque altro regista di sicuro mestiere dell'epoca. Eccezionale invece, subito prima, il rientro di Alberto semiaddormentato, ciondolante come un mostruoso cadavere dalla spalla di Moraldo che lo accompagna e lo sorregge. E' il ricordo di questa immagine ad illuminare di graffiante tono felliniano il saluto, che la segue immediatamente, di Olga, e tutta la sua lacrimevole vicenda; l'ubriacatura di Alberto, la sua delusione e le sue velleità, danno il tono a questa conclusione che altrimenti sarebbe deteriore: è già il Fellini che si diverte a correre il rischio del patetico, e riesce con sicura invenzione ad evitarlo. Il patetismo di lei (e quella strada deserta, così convenzionale; anche se Antonioni la sfrutterà ancora senza grandi differenze dieci anni dopo, in Deserto rosso) ne acquista un sapore fortemente ironico.
Del tutto inutile la storia del furto, che non serve né a caratterizzare la vita dei vitelloni né allo sviluppo della vicenda di Fausto, che permane statica fino alla fuga di Sandra (e perciò, qui, la conclusione non preparata appare gratuita). Non nego una certa abilità nel cogliere i personaggi; ma anche questa da commedia di costume, con facili battutine: i nomi (Giudizio per lo scemo, Fra Felice per il frate, trovato in un simpatico atteggiamento a potare l'albero); la paura della suora, la sigaretta buttata al frate che la prende al volo; anche il sentimentalismo dello scemo che si inginocchia davanti alla statua è inutile.
L'episodio ritrova una sua giustificazione solo cronachistica di descrizione ambientale, nel fatto che effettivamente episodi del genere servivano a rompere la stanca monotonia delle giornate dei vitelloni (ed i biografi si sono affrettati a trovare precedenti nella vita di Fellini o dei suoi compagni). Ma qui esso è troppo inserito nella vicenda pratica di Fausto, anziché scaturire dall’esigenza di novità dei vitelloni, e diventa gratuito.
La scenata del padre, e quanto segue fino alla riconciliazione di Sandra con Fausto, almeno è un po' briosa. Ma niente di più. Ottimo solo il breve sguardo fra Sandra e Fausto, quando il padre di lei denuncia le sue avances con la signora Giulia. Ma è troppo poco. E subito dopo Sandra si lascia convincere dal fratello, con la sua solita stupidità, che condivide con il fratello stesso. Si pensi all'enorme progresso che Fellini farà in Cabiria, che pure ricadrà ogni volta nelle sue illusioni; ma con ben altre giustificazioni narrative e psicologiche.
In piena retorica sentimentale, troppo poco ironica (lo sguardo di Fausto all'interno del panino portato da Sandra, e poco altro; e forse il tono generale, ma che non capisci, come al solito, se veramente è ironico), la musica dolce, dopo il primo momento di "sospeso silenzio", la scenetta dolce del giardino, pieno di verde nelle ombre, nel silenzio, nella pace della notte, l'infantilismo di entrambi, il pianto di Sandra ("non ho che te", e altre frasi da fotoromanzo) e la conseguente commozione di Fausto (tutti si commuovono davanti al pianto, in questo film, perfino il signor Michele con Fausto). Sembra che, per ora, l'atteggiamento infantile sia positivo, per Fellini, anche in adulti di trent'anni: quasi a dire che proprio perché vergini come bambini possono "salvarsi" (mentre non lo può il mistificato Leopoldo oppure il troppo consapevole Alberto; Riccardo non interessa; Moraldo parte, e non si sa se si salva ..).
Ancora il montaggio riporta all'ironia, ormai scontata e banalmente sottolineata dalla voce f.c. ("si mise con calma a cercare un nuovo lavoro"), ma piacevole rispetto alle sdolcinature precedenti: peccato che anche quella è troppo bonaria, condiscendente, e sempre uguale. Il bigliardo è il leit-motiv di questi passaggi, il simbolo dell'alienazione dei vitelloni, come 'per Zampanò sarà la catena, ma con ben altro vigore, che finisce per acquistare una carica tragica con la sua ripetizione; mentre qui finisce sempre più banale e scontato.
I momenti successivi segnano il culmine della retorica: probabilmente devono costituire il contrappunto positivo alla vita dei vitelloni, quel contrappunto che, prospettando una vita migliore, giustifichi strutturalmente la conclusione ottimistica della vicenda; ed è un accorgimento strutturale felice, spesso ripetuto da Fellini; ma qui non è riuscito, e suona solo retorico: la commozione per la nascita del bambino, la lacrimevole visita al nonno paterno col suo doloroso interesse, e lo sforzo di Sandra per consolarlo ("E Fausto, ha trovato un lavoro?"; "Sì, papà ... sembra di sì") e con la zietta bambina che fa da mamma ("no papà, tu non lo sai tenere "...); infine il dialogo di Moraldo con il piccolo ferroviere sulle stelle, su Sirio, la più lontana di tutte ("Tu ci andresti ?" "Si": e così Fellini pensa anche di aver giustificato narrativamente la partenza finale di Moraldo ...). Forse Castellani qualche volta ha fatto di meglio, e certamente De Sica, anche recentemente.
L'episodio del varietà, invece, celebrando l'ultimo trionfo e definitivo crollo delle alienazioni, è uno dei migliori del film, a partire dal solito attacco improvviso, con il particolare della schiena nuda di una ballerina. L'alienazione costituita dallo spettacolo stesso, che non è qui gioco (come nel circo) ma palese esibizione di sesso e di retorica sentimentale, famigliare (la recita col bimbo: "fantasia di giovinezza") e patriottica; le smanie da grande attore del "commendator Sergio Natali", celebre attore e capocomico (programma una tournée con Gassman e la Ferrati ...), e poi la sua misera passione omosessuale, per la quale si adatta ad applaudire la commedia di Leopoldo, che pure non ascolta e non gli interessa; gli entusiasmi vanesi dei vitelloni, prima orgogliosi del loro glorioso amico e della visita al grande attore, poi soprattutto affascinati dalle ballerinette - e questa è, in fondo, l'alienazione minore - ; infine il povero Leopoldo più degli altri alienato, perchè fa dipendere tutta la sua vita da quell'incontro (ed è proprio questa l'alienazione fondamentale nel mondo felliniano, messa a tema fin dal primo film e qui purtroppo ridotta ad un episodio ottimo ma marginale): qui Fellini sfiora felicemente il patetico, e raggiunge una certa sincera commozione proprio attraverso il grottesco della situazione, cui giova ottimamente la recitazione di Leopoldo Trieste, che si è arricchito e sfumato, riducendo quel tono da marionetta che aveva ne Lo sceicco bianco ( e che là, comunque, era adatto al tono del film).
Il primo breve ballo serve a dare il tono della rivista, e perciò fin dall'inizio a proiettare una vigorosa ombra grottesca sulla successiva "Fantasia di giovinezza" recitata pateticamente dall'attore, presentato, come al solito, prima in C.C.L., poi stroncato in crudeli P.P., commentati dal volto lacrimoso del bimbo che gli fa da partner, e che perciò, subito dopo, si mette a ballare a tempo, allegramente, per la canzoncina successiva. La banalità delle canzoncine (Vola colomba, ed altre di successo) si accompagna a quella dei movimenti delle ballerine che sono lì solo per far ballare il seno e mettere in mostra l'ombelico e le gambe (quelle due paia di gambe, mostruose nella loro enormità, poste a sfondo del palcoscenico, anticipano il mostruoso gigantismo di Anita Ekberg agli occhi del dottor Antonio).
La salita dei vitelloni, un po' agitata, e la calorosa, "signorile", accoglienza del grande attore, sono "in sintonia" con il camerino squallido, illuminato solo dalla candela, e con il rito della sigaretta: la solita felicità di Fellini nel cogliere il carattere comportamentale della società del momento attraverso un unico aspetto ripetuto in tante situazioni diverse; in questo film è la sigaretta che sottolinea continuamente le diverse situazioni: qui il grande attore giustifica la "nazionale" per questioni professionali ("l'americana è velenosissima"...) e maschera così la questione economica evidentissima (e perciò, per lo spettatore, felicemente esaltata proprio dalla pretesa giustificazione che ne fornisce l'attore) in tutta la miseria dell'ambiente, e poi dalla trattoria, e negli abiti dimessi dell'attore stesso, e nelle sue smanie di far colpo servendosi di altri nomi: da Gassman alla Ferrati, dai "Due Foscari" ad Ibsen.
Sempre grottesco, il commento dell'attore alla commedia (che evidentemente non ha letto), buono per tutti: "c'è questo (indica il cervello) e c'è anche questo (indica il cuore)", dichiara sporgendo la testa semitruccata dalla misera tenda del "camerino". E Leopoldo sprofonda nella sua alienazione da cui uscirà con dolore alla fine. Naturalissimo (per la psicologia di Leopoldo; ma per noi esplodente di ironia graffiante) l'immediato passaggio alla scena della trattoria, anticipata dalla voce di Leopoldo che sta già leggendo concitatamente la sua commedia, di corsa per vincere l'agitazione ed insieme per timore di non arrivare a leggerla tutta.
Ottimo ancora l'accompagnamento sonoro della voce di Leopoldo, durante tutto il movimentato e rumoroso incontro tra i suoi amici e le ballerine: Leopoldo non nota nulla perchè preso dalla sua commedia, e l'attore dalla sua foia. Finché, preso da un' "ispirazione poetica, magnifica", questi si trascina il povero alienato in riva al mare. E Leopoldo, secondo il costume felliniano, finisce per esplodere, e sfogare tutte le sue speranze e la sua insoddisfazione per la vita che conduce, tutto il suo animo segreto, ad un estraneo indifferente, per la strada, di notte: e subito dopo aver chiarito e confessato il vuoto in cui si trova, e che ora sente particolarmente pesante di fronte al luminoso avvenire che gli si prospetta, ripiomba crudelmente in quel vuoto, quando finalmente capisce le intenzioni del vecchio. Intanto il vento, fortissimo, commenta lo sfogo di Leopoldo, mentre lo costringe ad urlare, per farsi sentire, ciò che vorrebbe solo sussurrare. Anche la battuta del cappello portate via dal vento, senza assumere quel vigore che aveva nel film precedente (Leopoldo Trieste si è specializzato a dar la caccia al suo cappello) si fa simbolo dal suo lasciarsi trascinare dalla passione e dell'illusione, come il suo cappello dal vento, e introduce senza contrasti vistosi una nota comica che alimenta anche esteriormente il grottesco di tutto l'episodio, concluso mirabilmente con i P.P. alternati del vecchio che lo invita dal molo, in modo finalmente esplicito, e di lui che ora capisce e fugge accompagnato dall'ultima risata rimbombante dell'attore.
L'episodio artisticamente finisce qui; e finisce in modo mirabile. Ma poiché la storia è quella di Fausto, anche il film ricade nel banale con una diversa conclusione, di Moraldo che aspetta in piazza, dolorosamente pensando alla sorella e cercando di mascherarle i fatti rientrando assieme a Fausto; e di Fausto che saluta la sua occasionale amica e spensieratamente torna a casa.
Ovvio e patetico tutto il resto, fino alla fuga – anch’essa ovvia - di Sandra all'alba (mentre il solito spazzino pulisce la strada) e alla paura di tutti. Anche se si può fare qualche rilievo stilistico che sarebbe positivo, se non accompagnasse un contenuto narrativo così banale: le belle inquadrature della piazza deserta irregolarmente illuminata nella notte, le ombre orizzontali dei listelli delle persiane sulla parete, mentre Moraldo si avvicina ad essa (come fa Antonioni nel contemporaneo I vinti).
Ovvie ancora tutte le preoccupazioni del giorno dopo, il separarsi di Moraldo e poi di Fausto; un po' patetico il tentativo di Alberto Sordi (e di Fellini) di sollevare il livello con qualche nota comica troppo banale, quando insiste per mangiare qualcosa "prima di uscire di città". Meglio le immediate diversioni allegre degli amici, che tirano zolle di terra all'albero dietro il quale Leopoldo fa pipì o discutono sul verso del pettirosso; finché Alberto finisce per litigare con Fausto in reciproche accuse. Ma è troppo evidente la funzione di contrappunto. Dal punto di vista figurativo il ritorno a casa di Fausto è più riuscito, in quel totale disordine di abbandono, di vuoto; ma l'impostazione generale resta troppo sentimentale e facile. Come è facile, didascalico, l'incontro con la signora del cinema e il successivo sguardo al mare (con le sue suggestioni di timori tragici), mentre sfila la solita teoria di seminaristi che non c'entrano; e infine la ribellione di Moraldo (finalmente!).
Dopo, il film ripiglia tono, sia pure sempre nei limiti della commedia borghese; ma su questo tono e con questi limiti riesce tutto esemplare: l'irrazionale ma naturalissima visita di Fausto nel negozio del suo ex-padrone, a cercare conforto e forse più rimproveri, a tornare a quella vita in cui avrebbe fatto meglio a restare (ora lo capisce), forse a sperare di trovare notizie di Sandra; ma soprattutto a cercare una persona, di cui ora ha stima proprio per quell'affetto che essa ha sempre dimostrato per la moglie, a cercare un incontro con una persona viva.
E intanto il negozietto, con tutte le sue immagini, si pone con un senso nuovo a sfondo, ora espressione di solitudine nel dolore anziché di alienazione. Narrativamente la visita giustifica la presenza successiva del sig. Michele in casa del padre di Fausto, a trattenere Sandra, a consolarla, ed a creare un contrappunto piacevole che impedisca alla scena delle botte di cadere nel melodrammatico senza d'altra parte dare ad essa quel sapore comico che non si confà al salutare ravvedimento di Fausto. Ripeto, siano nei limiti della commedia borghese; ma ai limiti estremi: meglio di così non si poteva fare.
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Beh straordinaria! Lei azzera tutti rispolverando il passato :-)
Grazie. Allora avevo studiato Fellini per alcuni anni, in moviola, quando i videoregistratori incominciavano appena e non era facile studiare i film. L'ho fatto con l'aiuto di Fellini, ne ho ricavato due tesi e alcuni testi ciclostilati per i miei alunni... poi ho cambiato "mestiere" e adesso sui film scrivo solo impressioni di poco o nessun conto.
...di poco conto o nessun conto non direi proprio...saluti
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