Regia di Maroun Bagdadi vedi scheda film
Un film teso, fatto su un tema che dieci anni dopo, a causa delle guerre in Afghanistan ed in Iraq, diventerà di tragica attualità. L'attenzione del regista sembra appuntarsi sul rapporto che si instaura giocoforza tra il rapito e i sequestratori, con il consueto gioco di minacce di morte e propsettive di pronta liberazione ed anche di alternanza tra carcerieri sadici ed enigmatici con altri più umani e dialoganti. Ma Bagdadi non rinuncia a mostrare la realtà che sta intorno al rapimento del fotografo francese: una realtà dove davvero la vita di tutti è sospesa e dove la libertà è come la corsa di un cavallo bianco, che può essere interrotta all'improvviso da una raffica di kalashnikov o dall'esplosione di una bomba. Del resto, nella Beirut degli anni Ottanta (si dovrebbe essere nel 1987, perché uno dei rapitori a un certo punto annuncia con disperazione che Platini ha smesso di giocare al calcio) l'apparenza può ingannare e una giornata di sole può nascondere la morte, come un trasferimento che sembra preludere ad un'esecuzione può nascondere la libertà. E per un fotoreporter - uno che per mestiere, a rischio della vita, deve mostrare agli altri le cose che succedono nelle varie parti del mondo - è meglio stare con gli occhi bendati e non vedere chi gli si muove attorno.
Nel 1993 il regista Bagdadi è morto, proprio a Beirut, precipitando nella tromba di un ascensore, in circostanze poco chiare. Eppure, come avvisava proprio lui, attraverso le parole dette da uno dei rapitori al fotoreporter Patrick «questo è il Libano, amico: non fidarti mai. Le cose non sono mai come sembrano: sotto la pietra c'è sempre un serpente».
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