Regia di Bertrand Tavernier vedi scheda film
Uno dei capolavori di Bertrand Tavernier. Settima riuscitissima collaborazione tra il regista e Philippe Noiret, più carismatico che mai. Un manifesto antimilitarista universale.
E’ il film che sceglierei oggi, a cento anni di distanza, per raccontare ad un giovane quali furono gli strascichi della Prima Guerra Mondiale nella società civile e militare. Questo acuto racconto di Bertrand Tavernier, benché si svolga due anni dopo la fine del conflitto, è paradossalmente un film bellico. La guerra è onnipresente attraverso le sue cicatrici: uomini martoriati, villaggi e cittadine semidistrutti, immense distese agricole che nascondono ancora cadaveri, mine, bombe inesplose. Intorno, migliaia di familiari in cerca di informazioni su un figlio, un fidanzato, un fratello, un marito forse morto, forse mutilato, forse impazzito. Poi, ci sono i militari, o a dir meglio i superstiti della carneficina. Qualcuno muore ancora per un passo falso in un campo minato o per l’esplosione di un vagone di treno abbandonato carico di gas nervini. Infine, ci sono i 350.000 dispersi, 350.000 soldati di cui le famiglie non hanno più notizie da due anni o più. Di scoprirne l’identità è incaricato il Maggiore Dellaplanne (Philippe Noiret) che, attraverso indizi minimi come documenti, oggetti personali, medagliette, resti di lettere, anelli o altro, tenta di dare un nome e un volto a una miriade di vite stroncate nel fiore degli anni. Dellaplanne svolge il suo ingrato compito con rigore misto a disgusto per le pastoie burocratiche cui deve frar fronte. Come se non bastasse, i suoi uomini sono incaricati di trovare tra le innumerevoli salme i corpi di caduti la cui identificazione si riveli impossibile. Uno di questi sarà scelto come milite ignoto, verrà trasportato a Parigi, dove la sua simbolica fiamma brillerà sotto l’Arco di Trionfo. Quasi una beffa per Dellaplanne, nauseato dalla retorica post-bellica capace di trasformare una follia macellaia in motivo di vanto patriottico. In questo contesto infernale, incontra Irène de Courtil (Sabine Azéma), moglie e quasi certamente vedova del figlio di un senatore della Repubblica. Dopo un avvio ruvido e tanta reciproca incomprensione, tra i due nasce un sentimento di rispetto e ammirazione, persino di amore che nel vortice degli avvenimenti non potrà esprimersi, se non due anni più tardi, attraverso una lettera del Maggiore Dellaplanne, ormai dimessosi dall’esercito e ritiratosi in campagna, inviata alla donna che, nel frattempo, si è risposata e vive negli Stati Uniti. Una lettera d’amore poetica e struggente che chiude con amarezza il film.
Sabine Azéma e Philippe Noiret sono impeccabili nel tratteggiare due figure apparentemente antitetiche, che confliggono, battibeccano scoprendosi, si osservano con onesta neutralità, per imparare finalmente ad apprezzarsi vicendevolmente. Grande arte recitativa di due attori decisamente ispirati e storia d’amore profondo, ma il merito principale del film risiede secondo me nelle annotazioni storiche che impongono allo spettatore una riflessione su conseguenze che, per quanto inevitabili al termine di una guerra, raramente vengono raccontate. Si pensi al piccolo avvocato in cerca di parenti bisognosi di assistenza nelle loro complicate pratiche burocratiche, oppure allo scultore che parla di “nuovo Rinascimento” per la sua categoria di fronte a 35.000 comuni che richiedono unanimemente almeno un monumento ai propri “eroici figli caduti in difesa della Patria”. “La vita e nient’altro”, ovvero la vita va avanti a dispetto della morte, pronta a causare nuove carneficine, come sembra presagire Irène nel suo sfogo con il Maggiore dopo aver abbandonato la cerimonia indetta per la scelta del milite ignoto. Dall’altra parte della frontiera – afferma - un altro club sta celebrando lo stesso rito, con lo stesso protocollo e la stessa fierezza e pensa già alla sua rivalsa. “E sa perché li chiamo club?” – conclude – “Perché le donne non sono ammesse”. Non meno efficace la tirata di Philippe Noiret sulla Festa nazionale del 14 luglio: i reduci sflileranno lungo “les Champs Elysées” per circa tre ore. “Ho calcolato che se dovessero sfilare i caduti, la cerimonia durerebbe 11 giorni e 10 notti”.
Un antimilitarismo radicale ma non gridato pervade l’intero film, per la produzione del quale Bertrand Tavernier incontrò non poche difficoltà. Anche se in epoca mitterrandiana, le reti televisive nazionali si dichiararono anticipatamente contrarie alla sua messa in onda in “prime time”. Gli stanziamenti dell’editrice Hachette si rivelarono insufficienti per un film che avrebbe richiesto un grande impegno tecnico e scenografico. Gli operatori della troupe vennero retribuiti con il minimo sindacale, la casa produttrice Little Bear rinunciò a gran parte di percentuali e diritti, Philippe Noiret lavorò gratuitamente. Fortunatamente e giustamente, la risposta di critica e pubblico fu entusiasta. Due “César” nel 1990 per Philippe Noiret e la colonna sonora di Oswald D’Andrea, un milione e mezzo di spettatori nella sale alla sua uscita, il miglior incasso per un film di Tavernier dopo i due milioni d’ingressi nel 1981 con il geniale “Colpo di spugna”.
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