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Sole alto

Regia di Dalibor Matanic vedi scheda film

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La recensione su Sole alto

di MarioC
6 stelle

Scordatevi Tanovic e, soprattutto, Kusturica. La loro visione della guerra jugoslava interpretata secondo i canoni di una vitalità (diremmo propriamente slava, se questo non apparisse in qualche modo un settarismo o, in fondo, una mistificazione) dura a morire, presente a se stessa, fluida e gioiosa, anche nell’odio, nel sangue, nella baraonda delle etnie contrapposte. Con Sole alto Dalibor Matanic gioca di sottrazione e di isolamento: immagina piani temporali diversi, sceglie di raccontare una unica piccola storia di coppia in ciascun segmento. Una storia d’amore, in terre dove l’amore non c’è più, non può sorgere ovvero, quando pure esploda, lascia inevitabili scie di rancore ormai incistato in un popolo allo sbando.

Serbia, Croazia, Bosnia: quella che un tempo era un’unica razza si disperde, a partire dal 1991, nei rivoli di popolazioni distinte, orgogliosamente autoctone, rovinosamente autarchiche. Nella universalità dell’amore, del sentimento di esso, della sua consumazione fisica, del suo inizio e della sua fine, il regista sceglie di individuare un canto universale alla vita che trascende i destini e che pure a quelli deve pagare dazio. Non è casuale che gli attori (un lui, una lei, pochi altri a contorno) siano gli stessi: nell’incontro/scontro tra genie, nella impossibilità di perseguire un ordinario desiderio di normalità, gli stessi volti, la stessa nervosa imperturbabilità (la ragazza), il medesimo agitarsi affranto eppur pensante (il ragazzo) significano la studiata proposizione di un esperanto sentimentale senza lingua, razza, divisione. Amori difficili e destinati a non compiersi, eppure brulicanti di vita e di tensioni non belliche, a meno di non voler considerare tali le comuni sofferenze di cuori che altre ne avrebbero vissute, dovuto vivere.

 

 

1991: un amore di adolescenti che si chiude in dramma. Il superamento del primo confine tracciato, una parola di troppo, uno scherno innocente. Il sangue inizia a scorrere. La Jugoslavia si scopre polveriera (come mirabilmente dirà anche Paskaljevic).

2001: la guerra è finita, se così può definirsi un qualcosa che trascina i suoi segni nelle case, sulle mani, che impone e svela nuove povertà e miseri ambienti da riattare. Stavolta l’amore esplode animalesco, chiamiamolo pure sesso tout court, l’abbandonarsi a quella specie di sindrome di Stoccolma che trasforma due nemici in complici per un quarto d’ora, per il tempo di una fellatio rabbiosa, per i minuti necessari a canalizzare, per una volta, il sordo rancore in energia vitale, flusso di futuro precocemente interrotto.

2011: non esplodono mortai, ma feste dalla gioiosità mortuaria. Il passato rimbalza, assedia, segue senza sosta. I ritorni non conoscono lavacri di acqua, né parentesi alcoliche che spazzino via ogni rimembranza. Il passato siamo noi, sono loro, che si sono amati ed odiati. E che si siedono su due scalini a contemplare fin dove quella loro terra, la madre, può essere giunta. E fin dove le conseguenze di quell’amore possano, sotto le sembianze di un bambino biondo, rendere possibile una ricostruzione.

 

 

Il film ha una scrittura molto basica, è un’opera di volti febbrili e corpi esagitati o, più spesso, ieraticamente fermi nella contemplazione di un nulla incomprensibile. In questo sta qualche piccola pecca che lo rende disomogeneo e non completamente risolto. Il messaggio passa, ma in forma altalenante: il miglior frammento è forse il secondo, il più narrato, il più dolente, anche il più politico, nella solitudine che spazza via gli incontri, nell’isolamento di un gesto di cortesia amorevole che, tuttavia, non cambierà quello che è stato, non rimuoverà macerie, tantomeno quelle pesantissime dell’anima. E’ un’opera, Sole alto, che pare avere larghi e lunghi momenti di stasi, che non diventa mai pienamente politica (se non nell’ovvio discorso sotteso e con l’eccezione appena ricordata), che, si diceva, non mimetizza la poetica dolente nella vitalità malata e visionaria di un Emir Kusturica. Sceglie il sottotraccia e lo persegue con coerenza; e, per questo, è anche capace di fare male. Va visto: ennesimo tassello di un racconto che, purtroppo, pare non debba e non possa avere mai fine.

 

 

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