Regia di Grímur Hákonarson vedi scheda film
"Dev'esserci un modo di vivere / Senza dolore."
È un lavoro scopertamente, ulcerosamente spietato, “Hrútar” [ovvero “Rams”, “Montoni”, “Arieti”, ma, e non a caso, anche (fraterne, disamistadiche) “cornate”, “speronate”, “cozzate”, “testate”]; un’opera nuda, livida, anche se rivestita fino ad esserne intabarrata dalle convenzioni e dalle regole sociali, che dall’alto e dal di dentro coercitive muovono, in parte, le persone come fossero burattini (fantocci dalla testa cava riempita dalle dita del manovratore) eterodiretti dalla Famiglia e marionette legate con fili di refe alla croce di legno del bilancino maneggiato dallo Stato; un film spietato come il Tempo, che passa e non te ne accorgi, e alla fine ti arrendi (autodeterminato, anarchico, libertario) ad esso, e te ne lasci insegnarti migliore, ma solo quando oramai, forse - dopo aver espresso, per dirla con Corso Salani, il peggio di noi -, è troppo tardi. Sprofonda in un grembo, in un utero, in una culla (o una camicia, mutuando la definizione dal titolo del primo dei Sette Sogni di William T. Vollmann) di ghiaccio, “Hrútar”, e quel finale ti rimane addosso, come una seconda pelle fatta di specchio: kubrickianamente una fotografia di una fotografia della realtà. I film non cambiano le cose, e men che meno la vita. Solo gli eventi ci riescono, e quando lo fanno spesso e volentieri è il caso, attraverso una concatenazione indifferente di azioni e reazioni, cause ed effetti sganciate dal contesto e - in una sorta di concezione evenemenziale dell’esistere - mosse dalla mole della Storia, ad agire. E a volte i film, come in questa circostanza, sono (piccoli) eventi, dotati di… un certo sguardo.
Regìa e sceneggiatura: Grímur Hákonarson (1977), qui all’opera seconda (dedicata al ricordo della madre) nel lungometraggio di finzione, dopo “SummerLand” (2010) e prima di “the County” (2019).
Gummi: Sigurður Sigurjónsson (“Undir Trénu”, conosciuto col titolo inglese/internazionale di “Under the Tree”, e in italiano reintitolato “l’Albero del Vicino”).
Kiddi: Theódór Júlíusson (“Eldfjall - Volcano”, “Djúpið - the Deep”).
Fotografia di Sturla Brandth Grøvlen (“Victoria”, “Shelley”, “the Discovery”, “Wendy”, “Shirley”, “the Last and First Man”, “Druk”).
Montaggio di Kristján Loðmfjörð (sodale di Hafsteinn Gunnar Sigurðsson: “á Annan Veg”, “París Norðursins” e il già summenzionato “Undir Trénu”).
Musiche, ottime, di Atli Örvarsson (ne ha fatta di strada da “Vantage Point”, anche se “Hrútar” rimane ad oggi il “suo” film migliore).
Questa invece è la scrapie, un’encefalopatia spongiforme ovina/caprina (ad oggi, niente “spillover” - trattandosi di prioni, che con virus, batteri, funghi, protisti e nematodi sono le principali cause delle zoonosi - verso gli esseri umani).
* * * ¾ (****)
Film presente (come molti di quelli sopracitati) nella playlist che in parte ho dedicato al cinema islandese/iperboreale.
E una fretta di mani sorprese
A toccare le mani
Ché dev'esserci un modo di vivere
Senza dolore
Una corsa degli occhi negli occhi
A scoprire che invece
È soltanto un riposo del vento
Un odiare a metà
E alla parte che manca
Si dedica l'autorità
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