Regia di Grímur Hákonarson vedi scheda film
Se "Under the tree" di Haffstein Gunnar Sigurdsson, ultimo film islandese sbarcato sulle nostre spiagge nel 2017, evocava la biblica conoscenza del male attraverso l'albero situato nel giardino di Baldvin (Sigurdur Sigurjónsson), in "Rams - storia di due uomini e otto pecore" il mito ancestrale rivisitato dal regista Grímur Hakónarson, attraverso lo stesso Sigurjónsson, è quello di Caino e Abele. Anche in questo lavoro del 2015 il bravo attore islandese è protagonista di una storia dagli accenti biblici, capace di conquistare i giurati di "Un certain regard", sorretta dalla presenza scenica del diafano e barbuto Gummi e dalla tormentata fisicità di Kiddi, conferita egregiamente dall'imponente mole di Théodor Júlíusson. Al pari dei figli di Adamo i due uomini sono fratelli e pastori in una valle sperduta e solitaria circondata da montagne, neve e silenzio. Tra di loro si frappone un'inimicizia di lunghissima data. I due uomini non si parlano da quarant'anni, da quando il padre ha lasciato a Gummi l'azienda di famiglia e, se Kiddi abita ancora nella vecchia casa dei genitori, vicina a quella del fratello, è merito della madre che ha convinto il prescelto a concedere al ripudiato un posto dove vivere. La scoperta di una grave malattia nel montone vincitore di un concorso e la successiva denuncia di Gummi, porta le autorità alla decisione di stroncare sul nascere l'epidemia con l'abbattimento di tutte le greggi della zona, la disinfestazione delle stalle ed il rogo dei covoni.
La decisione non avvicina, affatto, i due fratelli accomunati dalla cattiva sorte, semmai incrementa gelosie e desideri di vendetta che spingono Kiddi ad impugnare le armi contro il fratello che, attraverso gesti distensivi, cerca, ma non trova, uno stabile armistizio che gli consenta di vivere in pace con le proprie pecore. Gummi compie il sacrificio di immolare gli amati animali sull'altare del raziocinio, secondo le direttive sanitarie, ma ne nasconde otto nella propria cantina, ben consapevole dell'infrazione ma incapace di separarsi da ciò che ama di più. Quando Kiddi, anch'egli lacerato dalla perdita del gregge scopre le trame del fratello i due uomini sono finalmente costretti ad un confronto troppo spesso rimandato.
Hakónarson sceglie le gelide valli d'Islanda, splendide nella breve estate nordica quanto solitarie e inospitali durante la lunga stagione invernale per raccontare la solitudine umana e per dare vita ad un'allegorica rappresentazione di un paese, l'Islanda, in bilico tra la strenua difesa della propria identità culturale e la necessità di una maggior apertura verso l'esterno sia nel rapporto campagna/città, quanto e soprattutto nel rapporto con un mondo in continuo divenire. Il regista sceglie due nuclei monofamigliari ripiegati su se stessi dove non c'è spazio per il conforto di un amore o le risate di un amicizia, dove il liquore non serve a rendere più loquace una chiacchierata in compagnia ma per stordire l'animo impigrito dalla noia. Persino il caldo abbraccio del Natale dura il tempo che si sciolga la cera che illumina un piccolo albero, mesto ricordo di una tradizione famigliare ingrigita dal tempo. E se un cane tiene insieme le greggi ed i cocci di questa famiglia, portando messaggi di porta in porta e ricevendo in cambio carezze e cibo, gli ovini rappresentano una vita affettiva altrimenti impossibile da trovare altrove. Quando la sicurezza che costoro rappresentano viene messa in discussione l'anima cristallizzata dei due uomini si riaccende dimentica dei vecchi rancori e degli anni sacrificati alla vacuità del loro stesso sentimento marciando a gran ritmo verso un inaspettato ritrovamento che passa attraverso il necessario smarrimento. In tale condizione un rifugio di fortuna diventa luogo, quanto mai simile all'utero materno, in cui trovare la purezza non ancora corrotta dal mondo esterno, la fraternità dimenticata da tempo ed il senso di un abbraccio riparatore che può sconfiggere la tormenta di una solitudine che da troppo tempo ha annebbiato la vista e nascosto il cuore ai sentimenti. Grímur Hakónarson si avvale di una fotografia livida come i cieli plumbei dell'Artico, di un ritmo lento come la vita rurale di quelle latitudini e lascia spazio alla quotidianità e al realismo per ricompensare la pazienza del proprio pubblico con un finale simbolico che assume il gusto preferito dal palato dello spettatore.
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