Regia di Roberto Minervini vedi scheda film
Tanto tuonò che alla fine piovve..Se ne sarà accorta la stampa e la critica nostrana che la spedizione italiana a Cannes 2015 oltre che i famigerati tre moschettieri contemplava anche la presenza di un quarto incomodo? Non sarebbe nemmeno alle prime armi, Roberto Minervini (classe 1970),e neanche così a digiuno di attenzioni e di riconoscimenti, ma la scelta a posteriori di vivisezionare il mancato riscontro dovuto (?) al nostro cinema con il consueto corollario di sterilità rischia di mettere in ombra quella che si rivela come la proposta più interessante. Lontano da un cinema schematico anche quando vuole costruirsi l’anticonvenzionalità, diverso da compromessi linguistici filotelevisivi, che favoriscono la dipendenza verso letture facilitate e anestetizzate di situazioni iperreali, Minervini assume una posizione del tutto autonoma e fuori da ogni contesto consueto. La sua presenza è parte integrante dell’insieme materiale del film documentario anche senza mostrarsi, lui stesso vive negli Usa, conosce la realtà particolare che descrive ma che non gli appartiene, incarna una neutralità e una purezza dello sguardo che gli permette un’osservazione affatto suggestionabile. Tema ignorato perfino dall’ormai modaiolo cinema indie locale, Louisiana parla di reduci di guerra, di corpi sfatti alla deriva che stanno oltre il margine sociale, dentro un limbo di invisibilità, calati in un ambiente simbolicamente spogliato di ogni compensazione materiale, in un territorio tanto disagevole quanto libero e deformato dalla loro condizione. Il racconto è diviso in due parti, entrambi significative e coinvolgenti, la struttura narrativa è quella del docu-film nel quale i personaggi descrivono loro stessi lasciandosi filmare in momenti particolari della loro giornata. Ad una prima parte più corposa dove si assiste alla vita di relazione fra Mark e Lisa, tossicomani, disperati, alla ricerca di poter abusare del loro amore, ne segue una più ridotta, dove un gruppo di probabili veterani in disarmo, ma soprattutto di sopravvissuti alla loro vita, si ritrovano in quegli spazi indefiniti e fuori da ogni controllo, liberi di sparare e di ribadire la loro sfida alla morte. La capacità di ripresa di Minervini è attenta quanto discreta, senza indugiare troppo sull’esteriorità dei suoi personaggi, di certo lasciando loro la piena volontà di esprimersi, con dialoghi e gesti disinibiti che stanno fra i momenti d’amore fra i due derelitti e le elucubrazioni etilico nazionaliste del gruppo dei reduci che si preparano a fronteggiare una possibile invasione da parte dell’Onu di quel lembo di mondo.. Ne sortisce un filo comune, autentico e sentito, magari momentaneo relegato all’attimo e con il rischio che il montaggio assembli i passaggi meglio collegabili, ma il regista dimostra di saper catturare la verità di quegli istanti, e ciò che restituisce agli spettatori non è complicità, non è uno sguardo giudicante nè una tendenziosa costruzione volta ad un falso pietismo. I personaggi sono e restano scomodi e respingenti agli occhi esterni, per ammissione dello stesso regista sono testimoni di un atto politico, come vuole esserlo tutto il documentario, uno squarcio netto che mostra cosa c’è sotto il tappeto buono della società più avanzata del mondo, (quello che film come American sniper non mostrerebbe mai). Tuttavia, l’insieme delle due parti del documentario che in apparenza sembrano un poco slegate fra di loro, configura una messa in relazione fra spettatori e personaggi che ridetermina il lavoro stesso, che riesce ad andare oltre il mero messaggio politico, abbracciando una dimensione interiore toccante e quanto mai spontanea. C’è qualcosa che unisce i volti di quella coppia di amanti falliti (e c’è dell’emozione che nei film degli altri tre accreditati autori si stenta a trovare), dentro uno spaccato di società sull’orlo del baratro simile a quella descritta in Gummo di Harmony Korine dopo il passaggio di un tornado devastante, come nella tristezza dei corpi sinuosi di Spring breakers, qui ridotti da Minervini a rilucente fotocopia della decadenza fisica e morale, riversabile in un grido di disperazione. Quello che si può identificare come il capo degli ex guerrieri, portavoce degli stessi valori che la cultura ufficiale detiene ed espande, esprime lo stesso smarrimento, l’identica fame di verità in cui trovare il senso della resistenza al proprio dissolvimento. E’ un dato umano e profondo quello che si registra, che vuole far riflettere sulla condizione umana in genere, sulla sua facoltà illusoria di aggrapparsi a feticci inafferrabili, alla lotta per sfuggire all’esclusione sociale, cercando di tamponare una lacerante solitudine interiore il cui vuoto silenzioso può essere confuso solo nella droga, nello sballo, nella fuga dalla realtà, o dentro un disperato sentimentalismo. Louisiana si trasforma da specchio dell’America a quello dell’umanità, il lavoro del regista sta proprio nel guardarsi intorno con attenzione, nell’indicare ciò che comunemente viene ignorato, nell’ascoltare i discorsi anche quelli più insensati con i quali le persone si difendono da un nemico del tutto interno a loro. Rifiutati dal mondo, emarginati anche da un sentimento di diversità o di insofferenza verso la regolarità, gli uomini si rifugiano in una natura desolatamente aggressiva e respingente, eppure individuata come unico eden sopportabile.
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