Regia di Roberto Minervini vedi scheda film
Tutto il cinema di Roberto Minervini nasce all'insegna di un'estraneità cui, in diversa misura, concorrono molti fattori. In primo luogo, la scelta di lasciare l'Italia per cercare di offrirsi possibilità che il nostro Paese gli aveva precluso; successivamente, la decisione di specializzarsi in un genere, il documentario, tanto innovativo quanto difficile dal punto di vista commerciale. Infine, ed è la cosa che ci sta più a cuore e che ci permette di entrare nel vivo della questione, la predilezione di contenuti, che di per sé, costituiscono quanto di più distante possa esistere rispetto al modello di sogno americano che ci è stato tramandato. "Louisiana" infatti racconta gli Stati Uniti attraverso due gruppi umani che seppur apparentemente differenti testimoniano altrettanti esempi di marginalità. Perché sia Mark che entra ed esce dalla galera e con piccoli espedienti si procura la droga necessaria a "farsi" che il gruppo paramilitare pronto ad addestrarsi per difendere la comunità dall'attacco di un fantomatico nemico sono lo specchio di una schizofrenia sociale che rappresenta in eguale misura il buco nero di un sistema di governo e di un presidente - chiamato più volte in causa dai protagonisti - che ha tradito le promesse della campagna elettorale. Pur in un flusso continuo di immagini che rimane una delle caratteristiche principali della sua messinscena, Minervini divide il racconto in tre momenti che si riflettono uno dentro l'altro a delineare una dimensione che è insieme antropologica - con il pedinamento di Mark, drug dealer che soddisfa i bisogni personali e quelli di una famiglia variegata e composita che è allineata sulle sue stesse dipendenze - ed emotiva - quando prende in considerazione le reazioni, ora rabbiose, di chi si rivolta con violenza all'orrore del quotidiano, ora sommesse, di chi non ha più la forza di ribellarsi alle angherie del presente - in un continuum narrativo solo apparentemente incongruo (visto lo sbilanciamento del minutaggio dedicato per la maggior parte alle vicissitudini di Mark), e invece strutturato nelle sua antitesi interna per restituire la dimensione di violenza gratuita in cui sono immersi i personaggi del film.
"Esule tra gli esuli" - e qui entra di nuovo in gioco l'estraneità di cui parlavamo all'inizio - Minervini grazie a uno sguardo che si fa parte integrante della realtà che descrive, si tiene lontano dai rischi del reportage "antropologico" così come dalla tentazione di organizzare un'apologia pauperista. Al contario, operando uno scarto emotivo che tiene in considerazione il degrado delle condizioni ambientali e il peso che esse comportano nelle esistenze dei personaggi, trova un filo di speranza laddove sembrerebbe non essercene più. Partendo, infatti, dalla materia nuda e cruda, che in questo caso "Louisiana" individua in una costante ricerca di intimità fisica - di Mark e Lisa, amanti e compagni di sventura ma anche degli altri famigliari che l'uomo accudisce con una presenza tenera e materna - Minervini arriva nelle profondità dell'animo umano e gli da voce con una poetica vissuta a fior di pelle: tanto negli inserti in cui la disperazione sembra prendere il sopravvento e un ago infilato nella carne diventa l'unica via di fuga, quanto nei rari momenti di tregua, dove la salvezza del mondo dipende dalla dolcezza di un abbraccio inaspettato. In questo senso "Louisiana " affermando il primato del corpo come collettore delle dipendenze materiali e affettive e restituedolo ai suoi naturali detentori, stabilisce nuove gerarchie (con la decisione di Mark di tornare in prigione per disintossicarsi una volta per tutte) e risarcisce, seppur in parte, quel mondo della dignità che gli era stata precedentemente sottratta.
In scia con la migliore tradizione di quel documentario italiano che a partire dai lungometraggi di Pietro Marcello ("Il passaggio della linea" e soprattutto "La bocca del lupo") ha ridefinito la forma di un genere che nel caso di "Louisiana" fatica a restare all'interno di categorie prestabilite per una fluidità narrativa che fa invidia al racconto di finzione, Roberto Minervini continua ad esplorare il volto oscuro dell'America secondo le caratteristiche che gli sono note. A fronte di un lirismo che alla pari di "Stop The Pounding Heart" deve molto a un senso panico della vita (ancora una volta la natura è insieme madre e matrigna), di "Lousiana" colpisce soprattutto la qualità di un cinema che nella ricerca di verità e di coinvolgimento riesce a restare saldo nella purezza del suo sguardo. E che fa del suo essere produttivamente minoritario il suo punto di forza, portando sullo schermo il rimosso della nostra presunta civiltà.
(pubblicata su ondacinema.it)
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