Regia di Roberto Minervini vedi scheda film
L’America sommersa, più che profonda, ritratta da Minervini non concede nulla ai luoghi comuni. Quella del marchigiano è una forma di realismo puro, senza aggettivi, dove il montaggio sembra fare di tutto per evitare assonanze, simbologie, riferimenti cifrati e altre forzature di quella che, invece, è una osservazione quasi entomologica di una realtà di cui i media raramente parlano. Anche il taglio delle inquadrature e i movimenti di macchina sono “neutri”, imparziali, radicali nella loro totale assenza artificio.
Minervini non ci risparmia niente: nudi frontali, amplessi e altri momenti di intimità, assunzione di eroina in vena da parte di ragazze gravide e altre pratiche tossiche. Non c’è mai strumentalizzazione della sofferenza, mai estetizzazione di vite maledette. Al punto che non ci si domanda nemmeno dove finisca la realtà e dove cominci la finzione: non ha alcuna importanza. Conta lo sguardo, intenso e viscerale, fra Garrone e Robert Kramer. Questo però è anche il limite del film: l’ostinazione alla ricerca di uno stile tanto “puro” da lasciare poco spazio all’invenzione poetica (che, come insegnano Ivens, Herzog e tantissimi altri, è possibile anche nel documentario). C’è qualche suggestione nelle rapide sequenze ambientati nelle bayou, quasi malickiane nella rappresentazione sacrale della simbiosi fra uomo e natura, o nell’irruzione di Mark nella scuola con relativi commenti alle illustrazioni didattiche di economia; per il resto non ci si discosta da un rigoroso approccio fenomenologico.
Anche la struttura irregolare, con due terzi di film dedicati alla coppia di tossici e alla comunità in cui vivono, e il rimanente dedicato all’addestramento dei paramilitari (con un suggestivo inserto, puramente “white trash”, di una sorta di Spring Break alternativo, nelle acque torbide del Mississippi, con buzzurri sovrappeso e altri grotteschi redneck al posto delle canoniche collegiali in piena forma che invadono le acque della Florida), avrebbe potuto prestarsi a rime e parallelismi, e invece si fatica a trovare un comun denominatore, col risultato che il film appare squilibrato ed disomogeneo. Certo, se si prendono le singole sequenze, si rimane colpiti: la distruzione della macchina nel finale è qualcosa di inquietante e ricorda un po’ Marco e Ciro di “Gomorra” sparare all’impazzata dopo aver rubato il carico di armi.
Ma il dato più interessante del film è quello politico e sociologico. Due cose si notano su tutte. La prima è che, in un contesto ideologico abbastanza sorprendente (i vecchi sudisti che si augurano che vinca Hillary Clinton, perché ritengono le donne più adatte al comando; il capo fascistoide dei paramilitari che ammette che gli USA sono responsabili di tanti tumulti in Medio Oriente, per colpa del loro arrogante ed egoistico interventismo), tutti sono accomunati dall’odio per Barack Obama. La seconda è la conferma, sia pur priva di retorica, di uno dei cardini dell’american way of life: il sentimentalismo. Mark e Lisa sono due tossici sbandati, ma si amano alla follia, e se lo dichiarano in continuazione: non sono così distanti dalle coppie maledette dei film di Nick Ray; il vecchietto alcolizzato si commuove quando legge la lettera di una bambina e quando parla degli ideali libertari degli Stati Uniti; l’ex-marine fa un discorso carico di enfasi, con gli occhi lucidi, quando esclama che la cosa più importante, in guerra come in ogni battaglia quotidiana, è la salvezza di chi ti sta vicino, che diventa come un fratello.
In definitiva, i contenuti ci sono e molto meno scontati di quanto ci si aspetti; lo stile è solido e ben definito; quello che manca è il classico “passo in più”, il salto di qualità sul piano espressivo. Per ora, Minervini è un eccellente osservatore della realtà: ci auguriamo che a breve diventi anche un grande cineasta.
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