Regia di Maria Elisabetta Marelli vedi scheda film
Dice Vittorio Sgarbi, sulla scia di Andy Warhol: «Avere registrato tutto quello che ho fatto sarebbe più importante dell’Ulisse di Joyce». A Maria Elisabetta Marelli bastano 37 giorni - nell’arco di tre mesi del 2002 - per restituire su schermo il vivere senza sosta di Sgarbi, trasformando lo spettacolo documentario in un reality pubblico e privato, umano e intellettuale, sboccato e sopraffino. Sgarbi a Salemi (TP), dove è (era) sindaco. Sgarbi in visita a musei. Sgarbi a passeggio. Sgarbi negli studi televisivi milanesi, ad attaccare i processi farsa a spese dei contribuenti. Sgarbi sul water. Sgarbi a cena, a casa (di rado), in auto, in pizzeria. Sgarbi con Chiambretti, Tornatore, Daverio. Sgarbi divoratore di libri, professore e critico d’arte. Sgarbi uomo di piccolo potere («A cosa serve il potere, se non a rendere felici gli uomini?») e umile cittadino. La macchina da presa raddoppia la vita, cattura gli istanti, inquadra senza mai giudicare: il soggetto si offre senza veli, complice di un’opera d’arte che, questa volta, coincide con il sé. Il suo eloquio non è artefatto dal medium, resta spontaneo, tribale («La mia fidanzata è una Lucia che ha capito che Renzo è uno stronzo e sta con Don Rodrigo») e provocatorio («In tutte le scuole si tolga il crocifisso e si metta il Cristo morto di Mantegna. Poi voglio vedere come fanno a toglierlo»). Il dispositivo immortala e documenta, fornendo testimonianza di un intelletto nell’unico modo possibile: restituendone il moto perpetuo.
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